Questo film non s’ha da fare potrebbe ben riassumere il clima che si respirava sul set durante le riprese di The Godfather. Il primo capolavoro di Francis Ford Coppola, uscito nelle sale durante il 1972, infatti, avrebbe potuto non vedere mai luce a causa delle fortissime resistenze, boicottaggi e perfino intimidazioni che il produttore dovette affrontare. Mario Puzo, d’altronde, era già da tempo finito nel mirino dei “don locali” subito dopo l’uscita dell’omonimo libro. Inserito nella lista dei best sellers del New York Times del 1969, l’autore fu oggetto dell’ostruzionismo della comunità italo-americana che vedeva di cattivo occhio un romanzo che puntasse i riflettori sulla mafia in America. Non solo l’associazione italiano = mafia era uno stigma da cancellare ma, soprattutto, i boss volevano che l’organizzazione restasse il più possibile invisibile per coltivare al meglio i propri “affari”. Puzo, d’altronde, s’era fatto uno scomodo e acerrimo nemico: Frank Sinatra. Il cantante era montato su tutte le furie ritrovandosi fin troppo somigliante a quel Johnny Fontane, personaggio legato a doppio filo a Cosa Nostra d’oltreoceano da chiedere a don Vito Corleone la parte che gli era stata rifiutata in un film, ottenendola infine grazie alla sanguinolenta testa mozzata d’un cavallo.
The Offer – accurata miniserie della Paramount esattamente a cinquant’anni di distanza – ricostruisce fedelmente le vicissitudini della travagliata lavorazione del primo capitolo della trilogia. Proprio la Paramount, del resto, aveva prontamente acquistato i diritti del libro di Puzo affidando l’impresa di trasporlo su pellicola al neo-produttore Albert S. Ruddy. Il Cinema americano non navigava in buone acque; la concorrenza della televisione si faceva pressante e durante gli anni ‘60 la quota di mercato esterosi era notevolmente ristretta. Italia, Francia, Inghilterra e Giappone sfornavano decine di film low-budget di successo internazionale, mentre lo smantellamento dello “Studio System” aveva lasciato scorie e molte case di produzione indebitate. La stessa Paramount, sull’orlo del fallimento, rischiava la (s)vendita.
Ruddy proveniva da tutt’altro ambiente – “venditore” di telefilm – ma possedeva l’entusiasmo e quel pizzico di sconsideratezza necessario per cogliere la sfida di rinnovamento di cui estremamente bisognava l’industria hollywoodiana. Il lungometraggio è senza dubbio l’opera d’arte di più complessa e difficile realizzazione, dal momento che dipende dalla magica alchimia che si instaura tra le molteplici individualità coinvolte in un progetto che spesso dura anni: produttori, sceneggiatori, regista, dop, attori, scenografi, costumisti, montatori e autori musicali, devono sinergicamente cooperare come un’unica affiatata orchestra per partorire un capolavoro.
Albert S. Ruddy, fin dal principio, prese di petto alcuni radicati tabù hollywoodiani affidando la sceneggiatura allo stesso Mario Puzo; infrangendo la regola non scritta di non affidare mai la “riduzione su schermo” a un vero scrittore (tantomeno l’autore!), in quanto a priori incapace di rientrare nelle anguste strettoie delle tempistiche cinematografiche. Poi, decidendo di puntare tutto su un emergente regista – necessariamente di origini italiane – che, a sua volta, aveva idee ben precise riguardo alla fotografia, alle location e perfino sugli artigiani preposti alla realistica preparazione del set, facendo lievitare il ristretto budget da 2,5 milioni a 4 solamente per girare a New York. La scelta del cast fu probabilmente ancor più problematica: Robert Evans – lo sregolato “grande capo” della Paramount – era fermamente contrario all’ingaggio di uno misconosciuto Al Pacino, attore dell’Actor Studios che sembrava troppo timido e introverso per una parte da protagonista. I divi del momento, in effetti, erano tutti molto “fisici” – Burt Lancaster, Peter Fonda, Charlton Heston – e così venne scritturato anche James Caan che, sebbene non abbia propriamente la fisionomia da siciliano, finì per interpretare il fratello maggiore di Michael Corleone. La scelta, infine, di reclutare l’iconico Marlon Brando, se da un lato soddisfava la necessità della Major di avere un grande nome sul cartellone, allo stesso tempo terrorizzava lo Studio a causa della fama d’ingestibilità che il “totem” si era cucito addosso e che aveva sancito i recenti insuccessi di botteghino.
Una volta sistemati i “ruoli” e iniziate le riprese incominciarono le intimidazioni. Una fucilata contro il lunotto posteriore suggerì a Ruddy che, se voleva portare a termine l’impresa, avrebbe dovuto necessariamente scendere a compromessi con la mafia. Lo spavaldo neo-produttore si presentò nella tana del lupo, strappando un accordo con Joseph Colombo, boss dell’omonima famiglia newyorchese. L’intesa prevedeva alcune limature alla trama di Johnny Fontane per accontentare The Voice e la cancellazione della parola “mafia” dal film. “Our Thing”, in effetti, suonava meglio ad entrambi. Colombo in quegli anni era senza dubbio uno dei più influenti boss della malavita d’oltreoceano; la sua Lega dei Diritti degli Italoamericani lo aveva reso ormai un uomo pubblico, un mezzo politico. Il rapporto di rispettosa amicizia che s’instaurò tra i due, consentì a Ruddy di terminare le riprese, grazie anche ai potenti appoggi che il boss aveva all’interno dei sindacati, ottenendone in cambio pubblicità e perfino l’inserimento di alcuni picciotti all’interno della produzione come comparse e security.
The Godfather cambiò definitivamente l’iconografia della mafia e dei cosiddetti gangster movie, umanizzandoli attraverso un realismo autoriale: non più film d’azione su di un malvagio boss malavitoso, ma la “vera” storia di una “famiglia” con le sue gioie e debolezze. Coppola per la prima volta mise sullo schermo un’autentica epitome dell’emigrante italiano che fonda una dinastia in terra straniera. Un èpos che narra l’eroica (e criminale) saga di una “stirpe” abile a perpetuarsi e farsi valere nel Nuovo Mondo dalle “infinite opportunità”. Un modo irrimediabilmente diverso rispetto al canone precedente. Perfino William Burroughs, piuttosto refrattario al Cinema mainstream scrisse entusiasta a riguardo:
«L’idea di fondo è che i mafiosi siano governanti più buoni, assennati e giusti degli americani bianchi protestanti che hanno sfasciato tutto senza rimedio».
Il Padrino ottenne ben tre premi Oscar, tra cui quello di miglior attore protagonista a Marlon Brando che, in segno di protesta per la discriminazione degli indiani, mandò l’attrice apache Sacheen Littlefeather a ritirare la statuetta in sua vece. Il discorso le fu tagliato mentre veniva subissata di fischi e improperi dalla platea. Si dice che John Wayne nel retropalco fosse furioso. Questo 16 agosto, esattamente cinquant’anni dopo, l’Academy si è ufficialmente scusata con Piccola Piuma per le offese di quella serata. «Noi indiani siamo un popolo paziente», la serafica risposta