Gli strumenti di indagine demoscopica stanno caratterizzando in modo considerevole la vita politica della Seconda Repubblica al punto da indurre gli studiosi a parlare di “sondaggiocrazia”. I sondaggi sono ormai ossigeno per chi partecipa all’agone politico e, al contempo, bussola per i naviganti alla ricerca del proprio oceano blu. Per indagare l’effettiva incidenza che hanno sull’azione politica e l’evoluzione avuta nel nostro Paese, abbiamo intervistato il Prof. Renato Mannheimer, decano della materia. Mannheimer dagli scranni di quella che viene definita da molti la “terza camera” – lo studio di Porta a Porta – ha rappresentato gli andamenti delle forze politiche che si confrontavano nell’era del berlusconismo imperante. Oggi, archiviata quell’epoca (nonostante il suo principale protagonista sia ritornato in Parlamento), il sondaggio rimane uno dei principali strumenti di indagine sdoganati proprio dal suo fondatore.
–Professore, la cultura del sondaggio in Italia si fa strada a partire dai primi anni ’90. Quali sono stati i principali fattori politici e culturali che hanno influito a tale diffusione?
Preliminarmente è opportuno precisare che in ambito commerciale l’Italia ha una consolidata tradizione nell’attività dei sondaggi di opinione e ricerche di mercato che risale agli anni ’50. Del resto, ancora oggi la maggior parte dei sondaggi che vengono svolti riguardano il mondo dei consumi. Tuttavia, anche in ambito politico in quegli anni venne effettuato qualche sondaggio da parte della Doxa, attiva dal 1946, che tra le sue attività vanta anche un sondaggio sul Referendum istituzionale del 2 giugno del 1946, con cui gli italiani furono chiamati a scegliere tra la Monarchia e la Repubblica. Il boom dei sondaggi si ebbe con l’arrivo di Berlusconi sulla scena politica il quale li trasse dalla sua cultura personale del marketing. Egli, infatti, trasferì il suo modus operandi e la sua cultura del marketing anche alla politica. Ciò, ovviamente, risultò uno dei fattori principali della sua vittoria del ’94. Prima di Berlusconi, i sondaggi venivano visti con sospetto dal mondo dei politici, ma dato che ciò portò un grande successo al suo promotore, il metodo venne copiato “malamente” anche da tutti gli altri politici, superando così quel sospetto nutrito in precedenza.
–In che modo e in che misura i dati rilevati dai sondaggi influenzano, soprattutto nell’attuale contesto socio-economico, la vita politica e l’azione di governo?
Oggi, purtroppo, i dati rilevati dai sondaggi influenzano moltissimo l’attività politica. Tuttavia è bene premettere che i risultati elettorali cambiano molto rapidamente perché, a differenza che nella Prima Repubblica, non ci sono più i voti di identità e le affiliazioni strette di partito, così l’elettorato è molto mobile. Dal momento che lo scopo di un politico è quello di essere rieletto loro cercano di stimare il risultato elettorale futuro attraverso i sondaggi e si comportano a seconda dei risultati dei sondaggi che costituiscono un termometro necessariamente ed inevitabilmente impreciso. Oggi i sondaggi sono diventati essenziali perché determinano, purtroppo, le scelte politiche che, invece di guardare al medio lungo periodo guardano all’oggi, all’immediato indicato dal sondaggio. Quindi il sondaggio può significare vita o morte per un singolo politico, diversamente da un tempo in cui questo esame era solo in occasione delle elezioni. Di conseguenza, anche i governi agiscono sulla base dei sondaggi.
–Guardando sempre all’immediato ovviamente la politica perde di visione…
La mancanza di visione della politica è più un problema che afferisce alla formazione del politici e del personale politico che, diversamente da un tempo, non viene formato nelle scuole di partito con l’apprendistato dei consigli comunali, regionali ecc…, ma viene prescelto in altro modo preferendo persone che, appunto, sono carenti di visione, in assenza della quale si rifugiano spesso nei sondaggi. Ciò ovviamente con le dovute eccezioni, infatti, ci sono politici dotati di grande visione, ma nella loro gran parte non ce l’hanno più e operano guardano solo dall’oggi al domani, come una cosa di brevissimo periodo, dando priorità alla conservazione del posto.
–Negli ultimi dieci anni l’astensionismo è cresciuto in maniera esponenziale. Quali, a suo avviso, sono le cause di questo preoccupante fenomeno?
Le cause relative al fenomeno dell’astensionismo sono molteplici. Da un lato sono strutturali, quale appunto l’invecchiamento della popolazione, dall’altra sono legate all’educazione politica giovanile. Una volta la politica si faceva nelle scuole, tra i giovani, all’università, mentre adesso i giovani si trovano in tutti altri mondi e di fronte alle elezioni politiche, in cui gli viene chiesto di votare, non sano cosa fare, non se ne intendono, non capiscono e preferiscono astenersi. ecco perché assistiamo una grande crescita dell’astensione giovanile. Poi, altro fattore da tenere in considerazione, è la disaffezione e il distacco generale dalla politica da parte della popolazione. Mentre una volta, quando votavano in tanti, votavano anche perché c’era una sorta di identità di partito, adesso quella identità non c’è più e di volta in volta si sceglie se andare a votare o meno.
–Ma a suo avviso quali ragioni stanno alla base di questa disaffezione verso la politica, soprattutto in un momento storico in cui sempre più spesso si parla di “democrazia diretta”?
Le ragioni della disaffezione risiedono nel fatto che la politica sembra non rispondere alle esigenze quotidiane dei cittadini trascinando il dibattito su altri temi. Il che non è vero perché la politica si occupa, nel bene e nel male, delle questioni quotidiane dei cittadini, ma la percezione è differente. Ciò genera un grande senso di rigetto della politica in tutto il Paese e, di conseguenza, anche dei politici. Infatti, negli ultimi vent’anni, abbiamo assistito ad una forte decrescita di stima verso i politici per via della percezione che questi ultimi non rispondano alle esigenze dei cittadini. Ci si fida meno del Parlamento che del casinò, che nelle nostre indagini, a torto, viene ritenuto più onesto del Parlamento.
–I numeri dell’astensione costituiscono un importante bottino. Tra le forze dell’attuale panorama politico chi, a suo parere, ha maggiori probabilità di conquistare quei consensi?
Dipende molto dalle evoluzioni future. Oggi un altro cambiamento è determinato dal fatto che siamo passati da una politica dei partiti ad una politica dei leader. I partiti sono sempre più incentrati sui leader, sui singoli personaggi. La capacità di questi personaggi di catturare l’opinione pubblica fa la differenza. Adesso abbiamo il momento della Meloni che ha un grande consenso personale, prima lo aveva avuto Grillo, ancora prima Berlusconi, ad un certo punto Renzi. Tuttavia, sono sempre voti che vanno alla persona più che al partito, perché si stima quella persona come possibile risolutrice dei problemi del Paese. Pertanto riuscirà a riconquistare gli astenuti il leader politico capace di comunicare se stesso in modo efficace.
–A differenza delle tendenze registrate negli ultimi anni, Giorgia Meloni ha riportato al centro la politica, quasi certamente anche per il fatto che lei stessa è cresciuta e si è formata proprio in ambito politico e, soprattutto, crede in un progetto partitico. Potrebbe tale fattore generare un’inversione anche in termini di partecipazione popolare?
Credo che il partito della Meloni senza la Meloni non avrebbe fatto strada lunga. Siamo in una competizione tra leader, quello che ormai conta in Italia, ma anche in altre parti d’Europa e negli Stati Uniti, è il leader più del partito. Pertanto, non vedo un’inversione di tendenza. Credo che resterà una competizione tra leader.