Ci sono film che al di là di ogni “riconoscimento ufficiale” dividono la storia del Cinema in un prima e dopo. Spartiacque tra ciò che era lecito (o semplicemente pensabile) mettere in scena e il resto, fungendo infine da “canoni” con cui ogni nuova generazione di registi è obbligata a confrontarsi se vuole affrontare determinati temi, cimentarsi in certi generi. Alcuni sono incontestabilmente iscritti nella storia del Cinema; altri possono invece essere oggetto d’infiniti dibattiti. Film “cult” il cui impatto rivoluzionario viene riconosciuto solamente a posteriori o che invece, pur facendo parte del ristretto circuito underground, godono d’un immediato riscontro di critica e pubblico. Memento di Christopher Nolan s’iscrive di diritto in quest’ultima categoria.
Vent’anni sono trascorsi dall’uscita nelle sale del primo cervellotico lungometraggio del regista inglese, che si era guadagnato l’interesse di Hollywood con Following, l’esordio noir e semi-autoprodotto. Vent’anni nei quali Nolan ha costantemente approfondito ed espanso la stessa ricerca poetica, coniugando l’autorialità con le esigenze da blockbuster per assicurarsi i mega-budget necessari ai suoi progetti. Acuto interprete della postmodernità Nolan ha fin dall’inizio ha eletto a nemica la linearità della narrazione, scompaginandola fino a renderla di volta in volta un “puzzle informativo” d’incerta risoluzione, senza però ricorrere a sotterfugi o scorciatoie (alla Shyamalan per intenderci), ma perseguendo a ogni costo la razionalità della fabula. Il suo Cinema è a tutti gli effetti una vera e propria “macchina noetica” – per usare il concetto chiave di Immagine-Tempo di Deleuze – e, in quanto opera d’arte, non riducile solamente allo spettro della visione, alla macchina narrativa o come costrutto semiotico, ma come autentica “corrente filosofica” che interpreta lo zeitgeist.
Nelle sue pellicole Nolan sperimenta ogni modo per rendere la temporalità diagetica estremamente frammentata – basti pensare solo a Inception, Interstellar o The Prestige –, quasi a testare il limite fisico dopo il quale la storia inevitabilmente collide e si disintegra proprio come accade in Memento a causa della sua stessa coerenza. Nulla nei suoi film accade mai per caso; conseguenza/effetto di una Storia perennemente circolare che insegue e, contemporaneamente, precede fatalmente i protagonisti; come il bossolo del proiettile risucchiato all’interno del carrello della pistola che apre Memento ma ritorna pressoché identico in Tenet direttamente dal futuro.
Diversi registi nello stesso periodo – a cavallo degli anni 2000 – si sono confronti con analoghe forme narrative fallaci, alternative e “bugiarde”: I Soliti Sospetti di Bryan Singer, The Game e Fight Club di Ficher; L’esercito delle 12 Scimmie di Therry Gilliam, Le Iene e Pulp Fiction, i film “adolescenziali” di Gus Van Saint (Elephant; Last Days; Paranoid Park) o la cosiddetta “trilogia della morte” di Iñárritu composta da Amores/Perros, 21 Grammi e Babel. Anche il continuo andirivieni dal presente al passato di Eternal Sunshine of a Spotless Mind e L’Arte del Sogno di Michel Gondry indagano lo spazio sottile che intercorre tra ricordo, immaginazione; sogno e tangibilità. Titoli che trovano la loro raison d’être nella constatazione che non ci si possa più fidare della realtà e dal momento che, come teorizzava lucidamente Pasolini, “il Cinema è la realtà stessa” ne consegue sillogisticamente che non ci si possa più fidare nemmeno di ciò che i nostri stessi occhi guardano.
Se già nel corso del ‘900 c’erano stati diversi autori che hanno indagato sporadicamente questo aspetto – l’Hitchcock di Nodo alla Gola e di Vertigo; il noir La fiamma del Peccato di Lubitsch; i racconti discordanti dei samurai di Rashomon di Kurosawa; la “sindrome di Proust” che attanaglia i personaggi di Bergman o l’incerto viaggio nell’episodica memoria, sospesa tra ricordo e illusione, de L’anno scorso a Marienbad di Resnais –, non può sfuggire che questa nuova ondata di “deflagrazione” della linearità narrativa avvenga proprio in concomitanza con l’affermarsi dell’era della riproduzione digitale; come se fosse proprio la Settima Arte vestita da industria del Cinema ad avvertire per prima l’impatto rivoluzionario della dismissione dell’analogico. Il Cinema, certo, periodicamente si è interrogato sulla finzionalità della messa in scena – basti pensare alla critica della Nouvelle Vague o al movimento Dogma 95 –, ma è proprio con l’avvento del digitale sotto forma di sempre più performanti cineprese ad alta definizione e di strabilianti interpolazioni di computer grafica che la stessa “materia filmica” diventa incerta. Cessando d’esistere il negativo fotografico, sostituito dall’immateriale pixel, termina conseguentemente anche l’attendibilità stessa di ciò che si vede in un mondo ultra-tecnologizzato dove i “fatti” esistono ormai solamente come riproduzioni su device. La manipolazione offerta dalla tecnica del green screen comporta un naturale “disincanto” sul cittadini-spettatore assuefatto che, non a caso, proprio i registi-simbolo della “restaurazione hollywoodiana” (Tarantino, Nolan, Fincher) rifiutano, preferendo datati e costosissimi formati come il 70mm ed effetti speciali sporchi, “alla vecchia maniera”.
L’allucinata e perfetta forma filmica di Memento rasenta la maniacalità perché riesce a far combaciare uno schema narrativo circolare con due movimenti specularmente contrapposti che ci costringono a subire lo stesso invalidante handicap del protagonista. Come Leonard Shelby, incapace di ricordarsi le proprie azioni ogni quindici minuti, anche noi spettatori siamo costretti a procedere a ritroso per trovare il filo della vicenda. Ogni scena a colori è infatti esattamente ciò che è accaduto in quella precedente ma di cui siamo all’oscuro. Il raccordo, poi, è ulteriormente straniante perché riagganciandosi esattamente sull’ultima battuta recitata, provoca un fatale effetto deja-vu. Il montaggio inoltre alterna anche un altro spezzone precedente di storia in bianco e nero che, invece, procede normalmente in avanti; fornendoci un appiglio di (scarsi) elementi fissi nella memoria a lungo termine del protagonista. Come scrive giustamente Massimo Zanichelli il mondo di Leonard Shelby è “pregno d’inganni e simulazioni” […] perché “quando si alterano i rapporti casuali, la narrazione subisce contraccolpi che generano apparenze ingannevoli, perfino esiziali”. Una condizione a ben vedere così pericolosamente analoga a quella del comune “internauta”, abitatore dei social, dove i fatti stessi sono semplificati, scarnificati fino all’osso e, spesso, manipolati e ritoccati da attori che agiscono nell’ombra sotto-forma di misteriosi hacker, spacciatori di fake-news, bot e algoritmi. I post di Instagram, come le foto geo-localizzate sugli smartphone, paiono così sinistramente simili alle polaroid scarabocchiate con cui Leonard Shelby cerca disperatamente di ricomporre il mondo esterno, quando non passa direttamente a tatuarsi nomi, date e numeri direttamente sull’epidermide. Incapace di orientarsi tra la sovrabbondanza d’informazioni che il proprio disturbo gli para di fronte dopo ogni “reset” di quindici minuti, scambia le cause per gli effetti e le conseguenze per “accidenti”.
“Se parliamo a lungo mi dimentico l’inizio del discorso, la prossima volta che ti vedo non ricorderò questa conversazione e non saprò se ti conosco” – spiega al proprio interlocutore. Una condizione terribile che lo lascia alla mercé di qualunque disonesto trovi sul suo casuale cammino e che, alla fine, lo porterà a decidere scientemente di auto-ingannarsi come letale e nichilista atto di rivolta contro coloro che l’hanno manipolato.
Una tragedia eterna, una sorta di Edipo impazzito che ci trascina in un vortice dove lo spaesamento è totale e non importa quante volte si riguardi questo film; funziona sempre nello stesso implacabile modo perché forse, nel frattempo, un po’ di Leonard Shelby è entrato in tutti noi.