Guido Carpi, docente di letteratura russa presso l’università Orientale di Napoli, si è cimentato in una biografia intellettuale e politica su Lenin, per l’editore Carocci, con il titolo Lenin, il rivoluzionario assoluto (1870-1924). Questo saggio è una sintesi delle due precedenti monografie di Carpi sul leader bolscevico, intitolate rispettivamente: Lenin. La formazione di un rivoluzionario (1870-1904), Bari 2020; Lenin. Verso la rivoluzione d’Ottobre (1905-1917), Bari 2021. Nell’economia del saggio, l’autore non dà molta importanza ai trascorsi dell’infanzia di Lenin e del suo contesto familiare e culturale, dedicandovi solo il primo capitolo intitolato, “Padri e figli“, sui diciotto complessivi. Lo studioso, per descrivere le vicissitudini biografiche e intellettuali di Lenin, attinge ai suoi maggiori scritti politici.
Secondo Carpi, un passaggio fondamentale del percorso intellettuale-rivoluzionario di Lenin è l’incontro che ebbe con i populisti-giacobini presenti a Samara, nella regione del russa del Volga, una delle località dove l’adolescnte Lenin risiedette per un breve periodo insieme a sua madre e a sua sorella. Lenin, scrive Carpi, rifiutava però il concetto politico su cui si basava il postulato populista-giacobino, fondato sul ruolo cruciale che aveva la società contadina, come classe rivoluzionaria, perché il mutamento della società capitalista, all’epoca in atto, metteva al centro un’altra classe, quella operaia. Ma al netto di tali concezioni teoretiche, lo stesso Lenin utilizzò come bagaglio dei populisti-giacobini le tecniche teoriche rivoluzionarie e cospirative, «il culto della militanza totalizzante e la concezione concentrica del movimento politico, gravitante attorno a un nucleo selezionato di devoti al bushido rivoluzionario» (pag. 10).
Questa concezione dell’uomo rivoluzionario, Lenin la inserì nella sua elaborazione personale del marxismo, che consisteva nell’adottare le teorie teoretiche del filosofo di Treviri ai contesti cogenti, perché rispetto al periodo storico in cui vissero Marx ed Engels, entrambi testimoni della trasformazione capitalistica della società occidentale, Lenin, nato nel 1870, apparteneva ad una generazione successiva a cui allo sviluppo capitalista subentrò l’emergere delle concezioni nazionalistiche, che portarono ad una fase imperialista del capitalismo.
Alle teoria populiste-giacobine, per Lenin fu fondamentale anche la lettura del Che Fare? di Cernysevskij. Proprio da tale romanzo Lenin prenderà il titolo di uno dei suoi più celebri saggi, pubblicato nel marzo del 1902. Il pamphlet aveva lo scopo di fornire una guida sulla concezione della funzione teorica e pratica che avrebbe dovuto avere un partito politico. Secondo l’analisi di Carpi, il libello per quanto chiaro nella prosa e nella sintassi, cela una natura concettuale ben più profonda in cui Lenin esprime, tra le righe, che la classe operaia acquista una propria concezione rivoluzionaria attraverso varie fasi temporali e contingenze storiche, che all’inizio può essere solamente di carattere economico ma che poi, di fatto, trascende nella dimensione politica. Nel libello Lenin descrive anche la figura dell’archetipo del rivoluzionario, caratterizzato da una commistione sincretica tra: l’avanguardia proveniente dal proletariato e dell’intellighenzia rivoluzionaria. Proprio sull’analisi del Che fare? Carpi sostiene la tesi che la filosofia politica di Lenin debba essere interpretata come una mediazione tra la corrente ideologica marxista e l’attività pratica, dove teoria e prassi non sono in antitesi ma complementari. Tale metodologia venne utilizzata sempre dallo stesso Lenin nel corso della rivoluzione d’Ottobre.
La stessa concezione di Stato, secondo Lenin, andava formata secondo una logica di una violenza di una classe sull’altra, che implicava inevitabilmente l’assoggettamento dell’uomo. Secondo tali premesse, lo Stato doveva essere distrutto, e per fare ciò la guerra si sarebbe dovuta trasformare in guerra civile, a cui a sua volta farà seguito una dittatura del proletariato, controllato dal partito che ne dirigerà i quadri di governo. Anche la fase della dittatura del proletariato sarà transitoria, perché essa dovrà lasciare il posto all’instaurazione dello Stato socialista, che vedrà estinguersi ogni classe sociale. In Stato e rivoluzione, pubblicato nel 1918, Lenin scrisse che un futuro Stato socialista poteva essere guidato anche da una classe di operai, che a loro volta avrebbero superato la fase dell’ignoranza grazie al progresso scientifico, concetto espresso con il noto aforisma: “Ogni cuoca dovrebbe imparare a reggere lo Stato”. Tale teoria, secondo Carpi, raggiunse il massimo vertice utopistico di Lenin e risulta essere il vero vulnus teorico del marxismo di fine Ottocento e di primo Novecento.
Nel saggio sul rivoluzionario russo, Carpi dà ampio risalto alla questione della nazionalità, che all’epoca era imprescindibile per il futuro stesso del socialismo tra le popolazioni del disgregato impero zarista. Problema concreto affrontato in maniera concreta dalla dirigenza bolscevica. Le prime questioni di nazionalità che dovette affrontare furono quelle della secessione della Finlandia a dicembre del 1917 e poi quella Ucraina, quest’ultima composta da un mix etnico tra russi, ebrei. La soluzione a ciò, per Lenin, era nell’unire le questioni nazionali, anche se di chiara espressione teoretica liberale, alle questioni sociali e che avrebbero dovuto confluire all’interno della rivoluzione proletaria.
Il cambio di marcia del bolscevismo, secondo Carpi, risulta essere la rivoluzione d’Ottobre. La fazione bolscevica del POSDR, di cui Lenin era il leader, perseguì dottrine politiche prettamente utopistiche, le quali dovettero affrontare la realtà una volta stabilita la connessione con vari apparati economici e sociali. Proprio la problematicità di tale passaggio, dalla teoria alla prassi, ampiamente divulgata da Lenin nei suoi numerosi articoli e saggi, di fatto non ha saputo offrire le adeguate risposte alla nuova classe dirigente bolscevica post-rivoluzionaria, che si è formata dopo la rivoluzione d’Ottobre. Questa nuova classe dirigente, sostiene Capri, era radicalmente mutata rispetto ai militanti “pre-rivoluzionari” a cui apparteneva lo stesso Lenin. La nuova classe dirigente bolscevica era stata inquadrata tra gli apparentamenti dell’Armata rossa, formata, per la maggior parte dei casi, da giovani provenienti dalle regioni più umili dell’impero zarista, con una formazione intellettuale precaria e per la gran parte dei casi quasi assente. A sopperire tale deficit subentrò la cultura marxista, però appresa in maniera sommaria e nozionistica, che andò a sommarsi a una logica di gerarchica obbedienza di stampo militare. Questa classe dirigente, fin dal suo costituirsi, secondo Capri, recava in sé i germi del futuro autoritarismo, che poi andrò a contraddistinguere il sistema politico e sociale sovietico nel futuro assetto statuale: «Le nuove istituzioni sovietiche sono ancora in uno stato di nebulosa informe e il potere viene esercitato emettendo decreti ad hoc la cui applicazione è delegata a “funzionari” proletari di fabbrica o di caserma, promossi in fretta e furia a tutte le cariche amministrative e istituzionali e abituati ad agire per le spicce». ( pag. 77)
Quest’ultima generazione di funzionari del partito-stato, secondo Lenin, arrivarono a contestare la sua stessa leadership, giudicando le sue scelte sull’ assegnazione dei vertici del partito secondo criteri puramente personalistici, fondati secondo una logica nepotistica. Ma di contro, Lenin considerò il fenomeno burocratico gerarchico degli apparati del Partito-Stato un lascito della concezione culturale zarista, che andava combattuta mettendo persone con indubbie caratteristiche al vertice del sistema. Proprio in questa contingenza, Lenin individuò nella figura di Stalin come suo successore alla guida del Partito, nominato nell’aprile del 1922 Segretario generale del partito bolscevico. La scelta di Stalin andava attribuita alla sua personalità cinica e decisionista del georgiano, ritenuto da Lenin come l’unico funzionario del partito che poteva portare ordine all’interno della macchina burocratica. Appena insediato al vertice del Partito, Stalin fece un’epurazione dei quadri del partito e dei membri del Comitato Centrale e del Politburo, con uomini a lui pedissequamente fedeli. Nel frattempo Lenin venne colpito da due ictus, il primo il 25 maggio del 1922 e un secondo il 18 dicembre dello stesso anno che minarono definitivamente la sua salute e che gli causarono l’allontanamento dal controllo dei centri nevralgici del partito.
Lenin, sempre più debilitato, inviò una lettera al XII Congresso Partito Bolscevico, che si tenne dal 17 al 25 aprile del 1923, letta per l’apertura dell’assise in cui propose l’aumento dei componenti del Comitato Centrale da 50 a 1000. Secondo lui i membri non sarebbero più dovuti provenire dalle istituzioni in seno al Partito, bensì direttamente dai consigli di fabbrica.
L’obiettivo era quello di cercare di impedire che il partito si concentrasse nelle mani di un unico soggetto e la soluzione fu trovata nell’allargare il Comitato Centrale, in modo che tutti i maggiori organi di controllo del Partito-Stato – Comitato Centrale, Politburo e Segretario generale – si sarebbero potuti controllare a vicenda, secondo un concetto di check and balances, «rendendolo trasparente e verificabile da parte delle masse». (pag. 138)
Nello scontro tra Trockij e Stalin per la successione, come scrive Carpi nell’ultimo capitolo del saggio, i due incarnarono i tratti dominanti della politica di Lenin: lo slancio del tribuno rivoluzionario e il pragmatismo del manipolatore esperto uniti in un’unica persona. Trockij era la personificazione del Lenin pragmatico, caratterizzato da un adattamento della tattica a seconda della contingenza; dall’altro Stalin, che interpreterà il leninismo teorico, fatto di un’accurato controllo collegiale dei membri del Partito. Proprio quando Lenin morì, il 21 gennaio del 1924, le sue analisi teoriche diventarono dogmi per il futuro bolscevismo.