




Interviste
“Cosa succederà se nessuna di queste grandi coalizioni riuscirà a ottenere la maggioranza del Parlamento?” Lo scenario di Giuseppe Alberto Falci
La Redazione
18 Luglio 2022
La più recente, e probabilmente più pericolosa, minaccia alla libertà di espressione nello spazio della Rete in Occidente è rappresentata dalle insidie nascoste all’interno delle sempre più numerose dichiarazioni di guerra alle “fake news”, le cosiddette “bufale”. Dobbiamo essere consapevoli che oggigiorno nell’era delle reti digitali, non possiamo più usare il termine “censura” richiamando al significato storico che assunse nell’età moderna. In numerosi paesi aventi governi di tipo autoritario, la censura non si è mai liberata dalla crisalide poliziesca e coercitiva. Diversamente nelle democrazie liberali, la censura ha assunto nuove sembianze, meno lampanti e che destano meno clamore a livello mediatico, ma che si servono degli strumenti legali-razionali del diritto per indebolire, annullare o ridurre al silenzio le voci del dissenso.
Nel caso italiano, certamente ascrivibile a questa prima tipologia fu il celebre DDL Gambaro del febbraio 2017, condiviso da tutto l’arco parlamentare, dal quale emerse un controverso dibattito, che nel nostro paese contrappose:
a) “gli integrati”, ovvero coloro i quali sostenevano che una più stringente regolamentazione normativa costituisse un passaggio necessario per regolamentare “l’ecologia dell’informazione” nel nostro paese;
b) “gli apocalittici”, invece sostennero che la normativa proposta potesse tradursi in un pericoloso tentativo di manomettere la democrazia nello spazio del web nel nostro paese, sfociando in una vera e propria censura.
I promotori del Ddl sostennero che i provider italiani avrebbero dovuto conservare i dati (data retention) di ogni cittadino in attesa che le autorità inquirenti avessero chiesto informazioni su quei dati. Le seguenti attività di monitoraggio e controllo dovevano fare riferimento ad attività sospette, presumibilmente legate al fenomeno terroristico internazionale e altre minacce. In tal modo i promotori sostennero la necessità di predisporre un progressivo allungamento dei tempi di conservazione dei dati internet e telefonici fino a sei anni.
È doveroso registrare un analogo orientamento “panottico” verso l’ecosistema dell’informazione online sia emerso nuovamente nel periodo immediatamente precedente all’emergenza sanitaria derivante dalla diffusione del nostro paese del Coronavirus.
Il bisogno delle Istituzioni di un maggiore e stringente controllo dell’informazione stessa, non ha tardato nel manifestarsi. Come noto, l’AGCom, l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, con documenti come “Indagine conoscitiva su piattaforme digitali e sistema dell’informazione” rilasciato nel febbraio 2020, ha sin da subito rimarcato la necessità di definire linee di intervento in direzione del cosiddetto “fact checking”, con l’obiettivo di centralizzare una sola fonte informativa, quella mainstream-generalista, ovvero quella riconducibile stricto sensu, al servizio pubblico radio-televisivo, a detta degli autori, l’unica capace di fornire strumenti informativi adeguati ai cittadini per una corretta informazione.
Tale orientamento, ha agilmente trovato il sostegno dell’esecutivo, che in data 4 aprile 2020, ha istituito l’ “Unità di monitoraggio per il contrasto della diffusione di fake news relative al COVID-19 sul web e sui social network”.
Non ci sarebbe da allarmarsi se avessimo un qualche tipo di garanzia del fatto che tale unità di monitoraggio si limiti effettivamente al contrasto delle sole informazioni che minano la salute pubblica in un periodo di pandemia ed emergenza sanitaria. Sfortunatamente questa garanzia non solo non esiste, ma probabilmente non è minimamente contemplata nel modus operandi del legislatore.
Ciò che vogliamo criticare è l’orientamento teorico alla base dell’agire politico dei promotori di queste iniziative. Ovviamente ci troviamo in un periodo contraddistinto dalle contingenze politiche proprie di una grave emergenza sanitaria.
Questo modus operandi censorio, gnoseologicamente soffre di una palese e ottusa logica binaria, che goffamente vorrebbe suggerire al “prosumer” non addetto ai lavori, il fatto che ad una “buona informazione” (ovviamente quella mainstream-generalista), possa e debba necessariamente corrispondere una “cattiva informazione” (quella dell’ecosistema informativo internet). Nulla di più superficiale e grossolano.
Probabilmente la più valida argomentazione a sostegno della tesi “censoria” istituzionale sarebbe quella atta a colpire direttamente le syndication di siti web che divulgano notizie “acchiappaclick”, gli autentici professionisti del falso giornalistico d’autore, i veri creatori di fake news nel web appunto, gli articoli confezionati ad arte che ricorrono a titoli sensazionalistici costruiti appositamente per catturare l’attenzione degli utenti e invitarli a cliccare su determinate pagine.
Un andamento degenerativo, che spesso si traduce in un profluvio di condivisioni sui social network e che determina in via conclusiva ricavi per inserzionisti pubblicitari e per questi spregiudicati proprietari di siti privi di un ogni forma di etica della comunicazione e di rispetto comunitario.
Tale fenomeno spesso è associato all’odio dilagante nei commenti degli utenti dei social network, (il cosiddetto hate speech), rappresenta un fatto tristemente diffuso e che in alcuni casi sfocia in episodi dannosi e lesivi come ad esempio il cyberbullismo. Tutto ciò però non giustifica le complessive finalità censorie erga omnes emerse durante l’emergenza Covid.
Il retroscena della stessa narrazione istituzionale è invece contraddistinto da un’intelaiatura di interessi e lotta tra i grandi gruppi di potere, ben disposti a sacrificare le agognate libertà individuali dei cittadini che cercano di studiare o informarsi sui fatti del mondo utilizzando il più funzionale ed economico strumento a loro disposizione: la Rete appunto.
Un governo o un’organizzazione di intelligence può mettere in evidenza alle aziende fornitrici dei servizi di rete (e alle stesse piattaforme social che detengono big data G.A.F.A. Google, Amazon, Facebook, Apple) eventuali contenuti online giudicati come non conformi al copione della ribalta della narrazione democratica di una nazione occidentale. Se una pagina o un contenuto specifico di essa, risultano indesiderati, o violano un copyright o i diritti di trasmissione, un governo detiene l’autorità di rimozione di un contenuto solamente se il server è situato nel proprio territorio nazionale.
Dunque ciò non pregiudica la possibilità di un governo di oscurare la visualizzazione dei contenuti indesiderati sul proprio territorio nazionale. Impedire agli utenti di accedere ad un determinato URL, si rivela il sistema di controllo del traffico web più diffuso. Le corporation dei big data G.A.F.A. (Google, Amazon, Facebook, Apple) non ricorrono con leggerezza agli strumenti della censura: poiché ogni restrizione dello spazio del web sfocerebbe in accese critiche da parte degli utenti, che finirebbero con l’investire quasi esclusivamente le sole aziende fornitrici del servizio.
Certo è che il principio della disintermediazione alla base della tecnologia delle reti digitali ha portato alla crescita esponenzialmente delle voci del dissenso. Nella dimensione mediatica della Rete, tali voci spesso provenienti da blogger riconducibili alle cosiddette galassie di attivisti grassroots, vengono premiate da porzioni di pubblico dei social network per una ragione abbastanza elementare: gli utenti esterni alle cerchie degli attivisti digitali che producono la cosiddetta “controinformazione” , pur essendo numericamente più esigui se paragonati alla colossale mole di utenti che spendono il loro tempo su internet e sui social network nel leisure time, dispongono della possibilità di trovare nello spazio della rete interpretazioni dei fatti sociali e politici che frequentemente, vengono snobbate dai media mainstream.
Le ricostruzioni giornalistiche proposte dai tradizionali intermediari dell’informazione (tv e carta stampata), per ovvie ragioni, tendono a rappresentare maggiormente lo specchio degli interessi dell’establishment. Non è pertanto difficile comprendere le ragioni profonde alla base della lineare continuità tematica dell’agenda setting che accomuna i gruppi politici alla stampa tradizionale: il bisogno di introiti e risorse finanziarie.
Per questa ragione il lavoro dei giornalisti di inchiesta embedded nei blog online dei grandi quotidiani o nella tv generalista, diviene sempre più prezioso poiché raro. Il giornalismo d’inchiesta ha sempre dovuto difendersi dalle restrizioni e dalle censure, ieri come oggi, esso rappresenta la linfa vitale per la sopravvivenza e per la credibilità dei tradizionali intermediari dell’informazione. La valenza paradigmaticamente rivoluzionaria del principio di disintermediazione alla base reti digitali, mostra la sua forza nell’analisi del mondo nell’età dei flussi globali.
Nei regimi autoritari come nelle democrazie liberali, le élites del potere, magistralmente descritte dal sociologo statunitense Charles Wright-Mills, continuano ad aver bisogno dell’accondiscendente operato delle agenzie di stampa tradizionali, arma culturale per eccellenza nella difesa del potere costituito.
Le preoccupazioni dei governi non riguardano l’agire hack-tivistico dei blogger grassroots in sé, sono invece le conseguenze sociali dell’agire hack-tivistico non allineato a destare le preoccupazioni dei governi: la diffusione virale sui social network di video e/o di altre informazioni che possono incitare il reclutamento, la formazione e la fidelizzazione degli utenti in eventuali community di followers animate da punti di vista critici riguardo l’isomorfismo del sistema mediatico e della sua saldatura con quello politico.
I cittadini che abitano nei paesi governati da regimi autoritari, hanno sempre dovuto mantenere un atteggiamento diffidente nel dialogo con gli altri cittadini, e cauto nella ricerca delle informazioni nel rispetto dell’esercizio di ricerca della libertà. La disintermediazione in rete, consente di bypassare i mediatori tradizionali, si produce un processo di coesistenza delle emittenze, all’agenda setting dei media generalisti, si affianca la narrazione sul web degli attivisti digitali.
Un nuovo esercizio di libertà per i cittadini delle moderne democrazie liberali, che hanno iniziato a familiarizzare con questa possibilità sin dai tempi di formazione e diffusione del movimentismo no-global, che per questioni storico-tecnologiche ha coinciso con l’avvento e l’affermazione della società in rete. Per queste ragioni, nello spazio del Web si possono trovare interpretazioni dei fatti sociali e politici difformi rispetto alle vulgate conservatrici dell’informazione generalista.
Il web in generale, e il web 2.0 in particolare, non possono e non devono essere associati alla trasparenza, alla democrazia dell’informazione intese come valori assoluti. Tutta l’informazione è di parte, in particolare quella mainstream è un’informazione che risponde agli interessi di gruppi di potere, non esiste un’informazione totalmente indipendente.
Ad ogni modo, il rischioso sentiero nel quale le autorità di governo del nostro paese cercano di traghettare la Rete è denso di insidie e rischi per la libertà di espressione e per la democrazia: non si curano i limiti della democrazia utilizzando gli strumenti dell’autoritarismo. Il web deve rimanere disponibile e accessibile per consentire la libera formazione della personalità, l’esercizio della libertà di espressione e di associazione, lo svolgimento di iniziative civiche, la sperimentazione di nuove forme di democrazia o il miglioramento delle esistenti.
La volontà politica dell’establishment elitario delle nazioni liberal-democratiche si sta traducendo nella pericolosa introduzione di filtri preventivi nel web. Il tentativo di rendere maggiormente difficoltoso l’accesso per gli utenti della Rete a specifiche fonti di informazione alternativa, presenta un preoccupante rischio: assottigliare il confine che separa gli autoritarismi dalle democrazie. Come già ci ricordava John Milton nel XVII secolo nella sua Aeropagitica. Discorso per la libertà di stampa:
«Se pensiamo di regolare la stampa per correggere i costumi, dobbiamo regolare tutti gli svaghi e i passatempi, tutto ciò che è estremamente gradito all’uomo, Nessuna musica deve essere ascoltata, nessun canto venir scritto o cantato, eccetto ciò che è solenne e “dorico”. Ci dovrà essere una censura per i danzatori in modo che nessun gesto, movimento, contegno venga insegnato ai giovani tranne ciò che ai censori sembri degno. A tali cose Platone aveva provveduto. Ci vorrà l’opera di più di venti censori per ispezionare in ogni casa tutti i liuti, i violini, le chitarre; non si deve permettere che strimpellino come fanno, ma si deve prescrivere ciò che possono suonare».