OGGETTO: Jean Cau, un cavaliere errante
DATA: 14 Dicembre 2020
SEZIONE: Pangea
Reazionario e ribelle, anticonformista e popolare, Cau firma il suo testamento ne “Le scuderie dell’Occidente”. Un trattato che fa a brandelli la nostra epoca
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“Non si può urlare contro i lupi e insieme far parte del branco”. Lo sapeva bene Jean Cau, scrittore francese tra i più anticonformisti e interessanti del secondo dopoguerra, che pagò col silenzio e con l’ostilità ad oltranza la propria indipendenza di pensiero, il suo personalissimo modo di essere un eroe del nostro tempo che accetta di passare al bosco. In opposizione con le mode, le tendenze e gli idoli del Novecento. Preferendo, ad essi, ascoltare “i venti dei passati perduti”.

Reazionario e ribelle, aristocratico e popolare. Inizialmente comunista si avvicina al mondo della nouvelle droite del GRECE, scagliandosi contro l’americanismo, il progressismo, la democrazia. Intavolando la sua personale lotta contro il ’68, il totalitarismo comunista e consumista. Allontanandosi dai piedistalli della cultura impegnata, per ergersi in piedi sulle rovine e scagliare il suo urlo contro il suicidio dell’Europa. Lui, il cavaliere che gridava decadenza tra le rovine calpestate.

Urlo che prende forma nel testo chiave dell’autore, Le scuderie dell’Occidente. Trattato di morale, summa del pensiero di Cau, strutturato in paragrafi e frammenti, alla maniera nietzschiana e pascaliana, dove vengono espressi moniti di inquietante attualità. Anticipando la frammentazione del mondo globale, il primato della tecnica e della merce, una società atea e nichilista cullata da feticci umanitari, che la assolvano e drogano, con ninne nanne pacifiste e buoniste. Opera, questa, per intenderci, che può essere paragonata al “Trattato del ribelle di Jünger, per la sua filosofia eroica e tragica, pessimista e apocalittica, e per questo l’unica realistica. Introducendo nella figura dell’Eroe un’icona alternativa, rappresentante la solitudine e la condizione di quegli intellettuali in lotta contro il mondo moderno. Divenendo l’evoluzione tragica dell’oltreuomo, che sceglie di farla finita con l’umano troppo umano del modello consumista e utopista. Che decide di avanzare, verso il nulla, come il cavaliere di Dürer, accompagnato dal presagio della morte e dalle tentazioni del diavolo. Scegliendo di non attaccarsi alla vita, ma diventare un simbolo, un individuo assoluto. Secondo il codice di Yukio Mishima, a cui il trattato è dedicato. Lo scrittore giapponese che attraverso il seppuku si procurò quella morte che “nessuno scriba approvò né comprese”. Che scelse la morte del “maestro e dell’onore, inutile di colui che, solitario, rende testimonianza di una morale inaccessibile e perciò feconda”. Una morale aristocratica, areteica, più vicina a Sparta e Roma che a quella borghese o peggio sessantottina e permissiva. Inseguendo quell’esempio eroico ed inaccessibile, che indigna e spaventa la mediocrità di un occidente “che non comprende né la sua decadenza, né la sua angoscia, mentre balbetta miliardi di spiegazioni”.

Una visione estrema ed intransigente, che si scontra contro i credi del villaggio globale atomico. Atomico in quanto atomizzato, diviso in piccoli frammenti solitari, ma soprattutto perché soggiogato della minaccia della bomba H. la cui presenza impedisce qualsiasi conflitto, autorizzando alcune micro guerre di professionisti, guerre di interessi che non hanno mobilitazione né eroismo. Che non permettono la creazione di una morale, ma la permanenza di una visione debole ed edonista, che non crea soldati o cittadini, ma consumatori o utenti. Instaurando “la pace continua”, una pace temprata dalla paura e dalla religione della liberazione sessuale, morale, civile. Che non libera dalla morale, ma dalla sanzione, che instaura permissivi moralismi. Che grazie al trucco della minaccia della guerra nucleare, crea un clima grottesco e tragico. Di una tragedia che è “assenza del tragico”, in quanto il dramma contemporaneo è una farsa anonima, priva di eroi ed attori, dotata di un pubblico vile e frammentato. Che preferisce ad una fine spaventosa uno spavento senza fine. Che si imbeve di pacifismo e libertà mal masticate. Che criticano il capitale, le armi, il consumismo, ignorando che è solo grazie a tale piaghe che la loro pace perpetua procede. È la paralisi del mondo globale. Non ci sono steccati, limiti, divisioni. Non esistono nemici o amici, ma solo “coabitanti”. Instaurando una religione dell’umanità priva di legami ed idoli. In cui l’uomo si scioglie nella totalità, diventando insensibile ed indifferente. Non più popolo ma pubblico, che se ne “fotte del Ruanda”, poiché di fronte alla razza umana ogni tragedia è insignificante. “Che ignora il sacrificio e il martirio, e non offre i suoi morti a nessuno, se non alla propria assurda sopravvivenza”. Senza il sacrificio, divenuta non più nazione o comunità, bensì specie, l’umanità vivrà esclusivamente il periodo dell’egoismo, “tanti nulla costretti a star buoni” in nome della “ragione totalitaria”.

Il nulla inquietante del mondo democratico in cui l’uomo viene appiattito al numero, in cui uno vale uno ed anche meno. Il regno della quantità, in cui non esistono più condottieri, ma “cortigiani gelidi e ragionevoli”. Agli aristocratici, sacrali e distanti, si sostituiscono i padroni, borghesi e pavidi. Coloro che non guidano le folle nell’assalto in guerra, ma si imboscano, mandando allo sbando contadini e poveri. Che praticano il sospetto e il timore, che esplodono in violenze sciocche, perché ogni violenza borghese “è nostalgia della guerra”. La open society ha sostituito il mondo eroico con quello degli “schiavi emancipati”. Che si attaccano ad una dimensione orizzontale e quantitativa. Che hanno libertà inutili, tranne quelle di potersi librare al di sopra della vita. La democrazia e la borghesia che, insieme al cristianesimo e al socialismo, sono i grandi mali del Novecento. Cristianesimo e socialismo, sempre più complici, più prossimi. Il primo, spogliatosi del mistero e del trascendente, del sacro e del sublime, è diventato solo un socialismo bigotto, la cui forma di prospettiva provvidenziale è stata incarnata dal comunismo. Perché “il comunismo è una vicenda del cristianesimo, il partito è una chiesa” e Mosca prima, e New York poi, sono le “novelle Roma”. Il futuro del “marxismo e del liberalismo che si sacralizzano e del cristianesimo che si sociologizza”. E creano uomini deboli e delusi, burocrati ottimisti e fatalisti, rassegnati e morti.

Critica che invade non solo le utopie politiche e religiose, ma che investe ogni forma di utopia, in quanto “gli utopisti sono condannati ad essere oppressi, gli aedi della libertà alla servitù”. Che i rivoluzionari, nello specifico i sessantottini, “sono il grado zero dell’uomo” poiché rinnegano il passato, la propria eredità, creano deserti e sono nulli, valutando con la lente dell’utopia e dell’attualità e non dell’eternità. Contro essi solo “il reazionario è colto”, essendo, per il suo amore per lo spirito e il passato, un barbaro in un mondo di selvaggi. Vede che ogni utopia nel concreto è “delusione e sventura”, perché “è vuota di ammirazione, di rispetto e di amore” che solo nascono nella differenziazione. Utopie e mediocrità che hanno condotto l’Occidente alla decadenza, al dubbio, alla coscienza infelice. Al prosperare di migliaia di morali e moralismi, che fiaccano l’uomo e gli rendono impossibile l’individualità e quindi la virtù. Condannandolo ad una “società senza speranza, una società di tolleranza. In cui tutto diventa lecito. Perché una società che non offre speranza ai propri figli permette loro ogni eccesso. La tolleranza è una disperazione”. Cau manifesta l’inquietudine di “far parte di un immenso organismo che sta morendo”, in cui si preferisce alla morte la schiavitù, alla dignità il consumo. In un mondo in cui “non ci amiamo più. Ci risparmiamo”.

Una società aperta “come una casa abbandonata, dove chiunque può entrare e deporre le proprie immondizie. Aperta ad ogni vento”. A cui oppone una morale della forza e del sacrificio, del limite e della comunità, della lotta e dello spirito. Una morale che abbandona l’uomo, la democrazia, in nome del genio, dell’individuo, dato che “non si è mai vista un’assemblea vincere la guerra, o un’accademia scrivere un capolavoro”.

Rifugiandosi nell’eroe, nel cavaliere errante che avanza nonostante il declino, che sceglie il martirio per la propria fede, lui l’irrazionale, il solitario il reietto. L’opera innesta a tali riflessioni, paragrafi poetici, ricordi in cui rievoca un passato popolare e contadino, in contatto con la natura e l’originario. Tra le descrizione del mondo della corrida, soffermandosi sulla figura del torero, uno dei tanti alter ego dell’eroe, che si fonde nel rito, nella rappresentazione di una vita tragica ed eroica in lotta contro il nulla e la fortuna, i cui numi sono Machiavelli e Nietzsche. Riscoprendo un contatto con quel mondo grazie alla figura eroica del generale De Gaulle, dopo i fatti dell’Algeria, in cui riscontrerà uno di quei simboli patriottici e carismatici. In quel “tragitto” riscoprirà la sua connessione sentimentale col mondo antico. Rinunciando al suo futuro perduto di idolo della sinistra engagement, di pupillo e segretario, e forse erede, di Jean Paul Sartre, da cui riprenderà il nichilismo e l’esistenzialismo, facendo subentrare tanti intellettualoidi organici che lo condannarono all’isolamento, alla damnatio memoriae. Lui un contadino della Linguadoca, figlio della lingua doc e della cavalleria, tra la pace atomica e le arene della corrida, il superuomo e l’Anarca. Che infuria dalle scuderie dell’occidente contro il morire della luce. Mentre dei suoi cupi censori, non rimane nulla. D’altronde con loro non ha niente a che fare, poiché crede solo in colui “che si sacrifica e rende perciò sacro ciò che fa”. Jean Cau è di un’altra patria e crede negli eroi.

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