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La banalità del fatalismo

La strage avvenuta nella stazione di Brandizzo è l'esemplificazione di un pensiero consuetudinario che continua a dominare, nostro malgrado, sull'osservazione dei codici normativi.
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È il 1961 quando Hannah Arendt pubblica il volume con la raccolta di articoli sul processo al gerarca nazista Adolph Eichmann, con il titolo La banalità del male, tenutosi a Gerusalemme e che aveva seguito per conto del The New Yorker. Un testo fondamentale dove la cronaca giudiziaria si mischia con un processo di carattere morale portato avanti dalla Arendt, non solo nei confronti del gerarca nazista – semplice burocrate e mero esecutore di ordini. Nella sua riflessione andò oltre, arrivando ad accusare anche gli stessi ebrei, vittime di quel sistema che loro stessi accettavano supinamente, ebrei che erano carnefici e vittime, dunque, di loro stessi.

Tali conclusioni, a scanso di banali generalizzazioni, possono essere riproposte in Italia, secondo una “banalità del male” in forma prettamente strapaesana, per connotare una parte della società italiana da sempre contraddistinta da una convinzione di carattere morale: ovvero quella del concetto imperante dell’“è stato sempre fatto così” e “tanto non succede nulla”. Proposizioni entrambe collegate, primariamente, da un terribile rapporto di causalità. Queste consuetudini si fondano sulla forza dell’irrazionale, del casuale e del fortuito, per poi concretizzarsi nelle relazioni sociali, diventando norme di carattere pratico a tutto tondo. A livello di studio antropologico possono essere un surrogato di quella cultura contadina di massa, che fondava la sua esistenza razionale nel magismo, fenomeno studiato da Ernesto de Martino negli anni Cinquanta. Tale convinzione morale nella consuetudine, se non ha una geografia culturale, può però essere associata alle nuove classi subalterne, che non corrispondono più al proletariato e al sottoproletariato del Secondo dopoguerra.

Questa nuova classe non ha solo ripudiato lo studio di concetti marxisti e gramsciani, ma lo studio in toto. Un gruppo eterogeneo composto dai cosiddetti analfabeti funzionaliLuca Ricolfi docet – che sa utilizzare le nuove applicazioni digitali di base, come i social network, ma non riesce a contestualizzare un semplice articolo di un giornale sportivo di mille battute. Ma cosa ancora più sconvolgente è che questa classe non riesce nemmeno a conoscere quali siano i propri diritti. E trovando la propria ontologia nel “tanto è sempre stato così”, non ha la minima percezione del compito che la conoscenza e la volontà impongono all’uomo .

Quando tale assunto diventa manifestazione concreta il più delle volte assume il contorno della tragedia. A suffragio di tale tesi, può essere adoperata la strage avvenuta nella stazione di Brandizzo, dove hanno perso la vita cinque lavoratori intenti a riparare un tratto di un binario della locale stazione ferroviaria. Come è stato ampiamente accertato da diverse fonti di prova – video delle telecamere di sorveglianza nella stazione; testimonianze di ex dipendenti; un video girato da una delle vittime pochi attimi prima della strage – la causa è dovuta all’errore umano da parte dei due superstiti della squadra, il tecnico della Rete Ferroviaria Italiana e il caposquadra della ditta di manutenzione, la Sigifer. La Procura della Repubblica di Ivrea, competente per territorio, ha indagato i due lavoratori per i reati di disastro ferroviario e omicidio plurimo con dolo eventuale. Come recita l’art. 43 del Codice Penale, il dolo eventuale si configura quando l’agente accetta l’ipotesi che si verifichi un dato evento, anche quando questo non sia deliberatamente voluto.

L’origine della condotta dei due tecnici ora è da ricercarsi in quella quella cultura del casuale e del fortuito “tanto non succede mai nulla“, che li ha portati a ignorare i protocolli di sicurezza che prevedevano l’autorizzazione da parte della Sala operativa di controllo di Trenitalia. Hanno deciso di affidare le loro vite e quelle dei loro colleghi al caso. In questo contesto non può essere applicato l’assunto di René Girard secondo cui in queste situazioni si cerca sempre il capro espiatorio a cui attribuire la colpa per una causa che di fatto è dell’intera società. Il punto cogente è solamente uno: che al rispetto delle norme sulla sicurezza, appositamente e accuratamente codificate, si è scelto la consuetudine fatalistica, in cui vittime e carnefici sono due facce della stessa medaglia.

Più di cinquecento anni fa Machiavelli metteva in termini antinomici il fattore “fortuna-caso” con la Virtù. Quest’ultimo fattore era la sola unica sola forza capace di mutare il destino dell’uomo all’avversione della “fortuna-caso. Nel famoso capitolo XXV del Principe, utilizzando la metafora del fiume in piena, per descrivere la Fortuna, così scriveva: «E assomiglio quella a uno di questi fiumi rovinosi, che, quando s’adirano, allagano e’ piani, ruinano gli alberi e gli edifici». Gli uomini per opporsi al corso dell’irrazionale, del fato, dovevano utilizzare la sapienza, che per Machiavelli era l’insieme di due saperi, «una lunga esperienza delle cose moderne e una continua lezione delle antique», ovvero lo studio degli storici classici, che doveva servire agli uomini per sapere prevenire il corso della natura arginando il letto del fiume, «in modo che, crescendo poi, o egli andrebbero per uno canale, o l’impeto loro non sarebbe né si licenzioso né si dannoso.»

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