Michel Foucault coniò la categoria del biopotere per descrivere come le istituzioni politiche esercitino da secoli il dominio sui corpi umani in nome del benessere e dello sviluppo economico-sociale. Esaminò i numerosi modi in cui il corpo viene manipolato e utilizzato nel contesto dello stato moderno, analizzando, ad esempio, come il discorso pubblico rafforzi le norme sulla sessualitàe l’idea di sanità mentale, e come la definizione di questi problemi consenta a forze esterne di controllare minuziosamente gli individui. Nella definizione di ciò che è “normale”, i singoli si fanno docili strumenti e vengono impiegati per escludere coloro che non si adattano ad un ordine socialmente accettabile.
Lo schema di Foucault è per buona parte alla base di un volume appena uscito per le edizioni Bietti di Milano, nella collana l’Archeometro, opera di Paolo Bottazzini, corredato da una dotta indagine storica sulle ragioni politiche e filosofiche delle risposte al diffondersi delle malattie. Dalla lettura del saggio, intitolato “Epidemia e potere. Dalla peste al Covid-19, politica e strategia del controllo”, emerge che il mondo che si va costruendo sotto i nostri occhi sembra proprio un’ossessione biopolitica: i governi, presa a riferimento la “scienza”, impongono uno stato di eccezione, una dittatura pandemica: svincolandosi, con il pretesto della tutela della salute –o persino della “sopravvivenza” –, sono finalmente in grado di dominare come hanno sempre sognato nella modernità: adoperando la popolazione come pura “biomassa”, nuda vita da sfruttare.
Il biopotere non è solo un’interazione che si verifica ad un livello macro, in cui i governi o le istituzioni sfruttano un’influenza complessiva sulla società; piuttosto, esso è esercitato, nella vita di tutti i giorni, anche a livello micro, nei rapporti tra medici e pazienti, insegnanti e studenti, ecc., e viene mantenuto attraverso queste reti sparse e decentrate. La nascita del capitalismo e dell’industrialismo diede l’impulso decisivo – per favorirne l’ascesa ovvero per contrastarne gli effetti negativi – alle strategie legate all’ingresso della “vita” negli interessi delle tecniche politiche; queste furono indirizzate all’aumento della popolazione, alla riduzione della mortalità infantile, ma anche a propositi eugenetici con varie declinazioni: il rovescio della medaglia è stata, infine, la distinzione tra ciò che meritava di vivere e ciò che invece poteva venir soppresso.
Un primo modello di biopotere è da rinvenirsi nella lotta alla diffusione della lebbra nel tardo medioevo: i primi ospedali separano i sani dai malati, ma presto, terminata l’emergenza, divengono case per indigenti, matti e vagabondi – il potere comincia ad esclude socialmente i “deviati”. Questo modello viene sostituito da un altro, che si impone intorno alla paura della peste nel XVII secolo: il potere disciplinare. I deviati non erano più (semplicemente) esclusi e rinchiusi: piuttosto, tutti – bambini, soldati, lavoratori, prigionieri, poveri – sono ora soggetti ad una disciplina rigorosa che occorre, non da ultimo, come pratica di un rigido addestramento al lavoro, finalizzato quindi a rendere “produttivo” il proprio corpo. Dunque, vediamo come anche i modelli di controllo del passato nascano da una risposta nei confronti di una malattia infettiva: se è vero che il lebbroso ha dato luogo a rituali di esclusione, la peste ha portato con sé progetti di sorveglianza disciplinare. Inoltre, i provvedimenti dell’autorità per arginare la peste prevedevano già un sistema di vigilanza dei confini e degli attraversamenti della città, che richiedeva il rigoroso confinamento dei cittadini nelle loro abitazioni. È uno spazio che diviene segmentato, immobile, congelato: ogni individuo è fisso al suo posto, e se si muove lo fa a rischio della propria vita – contagio o punizione.
Si realizza il sogno politico della disciplina, cioè la visione di un’organizzazione in profondità ai fini della tutela e della supervisione, un’intensificazione e ramificazione del potere mai visto prima. Non si tratta sempre di luoghi in cui l’epidemia di peste è realmente scoppiata, ma dell’utopia della città “perfettamente governata”, per la quale la malattia (prevista almeno come possibilità) è il processo eternamente in corso che definisce idealmente l’esercizio del potere disciplinare. Per osservare il funzionamento perfetto della propria città, i governanti sognano lo stato pandemico come i giuristi e i filosofi dello Stato immaginano lo stato di natura per concepire una legislazione impeccabile.
Ma a quel tempo sorse una reazione: sembrò poco plausibile concepire le società contemporanee sul modello di una grande macchina disciplinare quasi come fossero città appestate in continuo stato di sorveglianza e controllo. La libertà – principalmente economica – degli individui emerse come qualcosa di irriducibile, di fondamentale. Per chiarire questa trasformazione storica, anche qui con un richiamo a Foucault, assistiamo allo sviluppo di un nuovo modello, legato al contrasto alla diffusione del vaiolo, con le relative pratiche di inoculazione del virus depotenziato. Il problema qui è posto in modo diverso: non si tratta più di una rigida disciplina come ai tempi della peste; il problema è sapere quante persone sono infettate, di che età, con quali effetti, con quale tasso di mortalità, lesioni o postumi, i rischi dell’inoculazione, la probabilità che un individuo muoia o venga infettato nonostante l’inoculazione e gli effetti statistici sulla popolazione in generale. Le autorità del XVIII secolo rispondono al vaiolo con l’osservazione statistica, misurando l’incidenza della malattia, e con i tentativi di proteggere la popolazione dall’infezione attraverso il vaccino.
Questo è il punto importante, all’interno di una direzione liberale nella gestione del rischio: la percezione e la soluzione del problema non deve trasformarsi in un inquadramento soffocante degli individui, perché questo minerebbe le loro libertà; il potere deve rispettare la relativa “impenetrabilità” della società, anche a costo di correre qualche azzardo. In altre parole: il modello di biopolitica legato al vaiolo si basa essenzialmente sull’abbandono del proposito di sradicare completamente gli agenti patogeni – sorvegliando la società in profondità come ai tempi della peste e disciplinando il movimento di tutti gli individui.
Il modello della peste è dunque necessario quando non è possibile acquisire quella conoscenza statistica che rende possibile il modello liberale del vaiolo. Ma è accettabile che ciò si verifichi nei nostri tempi, con tutte le tecnologie che abbiamo a disposizione? In Corea del Sud, Vietnam, Taiwan o Singapore, nota il Bottazzini, i governi si sono limitati a isolare gli infetti e a raccomandare cautela per il resto della popolazione, senza tuttavia dover imporre un blocco. Questo ha comportato, per un certo periodo, la raccolta e la valutazione dei dati relativi ai movimenti di chiunque avesse uno smartphone in tasca, con tutte le implicazioni del caso. I governi occidentali sono stati, invece, particolarmente criticati per l’impreparazione e la lenta risposta alla crisi: indubbiamente, la sorveglianza e il controllo sono potenziali minacce alla libertà pubblica, ma per la maggior parte dei cittadini questa crisi evidenzia innanzitutto l’inadeguatezza delle infrastrutture sanitarie, debilitate da diversi decenni di politiche di austerità. Alcuni vedono il Covid-19 come un’opportunità per immaginare un mondo più egualitario, mentre i “globalizzatori” fiutano il momento propizio per sbarazzarsi dei residui dello stato sociale, della rete di sicurezza per i più poveri e, più cinicamente, per togliere di mezzo quella parte di popolazione in sovrannumero che ingombra il pianeta.
Nella governance biopolitica i cittadini non sono più soggetti di diritto (e di “diritti”), egualmente sottoposti alla legge e inseriti in una rete di protezione sociale, ma una popolazione biologica da controllare e manipolare mediante tecniche modellate sulla risposta alle crisi epidemiologiche. Più si mantiene lo stallo attribuito alle periodiche impennate della curva dei contagi, più diventa evidente il gioco perverso cui siamo asserviti: la reazione diffusa contro la gestione politica della crisi dimostra appieno la portata del fallimento biopolitico.