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“L’eccelso prende forma”

Oggi, per convenienza, in molti piangono Franco Battiato. Per anni, però, il grande cantautore è stato incompreso, osteggiato, preso in giro
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“Perché noi siamo liberi di fare quello che vogliamo: di uccidere, stuprare, rapinare, e vomitare critiche insensate, parlare e dire solo sempre inutili cazzate”

Stage Door, Franco Battiato, Segesta, 2007

Scrivere di e su Franco Battiato è un rischio tremendo: pur con tutte le buone intenzioni e la volontà di rincorrere un’originalità non scontata – che per altro è stata il fulcro della sua attività, cantautorale e non – la possibilità di scadere nel banale è mastodontica. Tanto più provarci subito dopo la sua scomparsa: corporale, fisica, imparentata con quella impermanenza di cui ha cantato e profetato per decenni – specie in seguito alla svolta dogmatica prima che letteraria degli anni Ottanta, culminata nell’album Fisiognomica –, e contrapposta alla ricerca di elevazione spirituale che l’ha reso unico, oltre che speciale.

Chiunque l’abbia seguito o imparato a conoscere sin dai primi accenni di carriera – l’approdo a Milano, l’incontro determinante con Giorgio Gaber, la crisi esistenziale nella prima metà del Settanta –, sa che, secondo le regole delle “sacre sinfonie del tempo”, il capolinea di Battiato che dispensava capolavori ed estasiava ai concerti era giunto molto prima di ieri, e più precisamente a cavallo fra il 2017 e il 2018, quando un pesante infortunio al femore ne compromise definitivamente la presenza agli eventi e ne decretò l’uscita forzata di scena, e il sospetto che ci si dovesse rassegnare alla conclusione perentoria della sua testimonianza artistica.

Così come i suoi affezionati ed ‘abbattiati’ son ben consapevoli che tutti quelli che, dalla giungla della politica alla cuccagna dello spettacolo, opportunisticamente si sono ammassati per rivolgergli un commiato – magari dopo averlo minimizzato per anni come esasperatamente aulico ed incomprensibile ed averlo stigmatizzato per aver dato voce ad un “sentimento popolare”, ovvero che le “troie” intellettuali e d’animo, senza distinzioni sessuali, vadano estromesse dal Parlamento –, sarebbero stati bellamente mandati a fare in culo dallo stesso Franco, che di pietismi, mitizzazioni postume, e melliflui osanna non ne ha mai cercati, né gli sono mai piaciuti. I “perfetti e inutili buffoni” che oggi si riempiono gli occhi di circostanziali lacrime e la bocca di pomposa retorica sono gli stessi che a Battiato rimproveravano uno stile esageratamente astruso ed elaborato, troppo sui generis per essere fruibile al grande pubblico, affamato di tormentoni e dall’udito non connesso al cervello, più che dalle orecchie semplice e senza pretese. Ma la portata del messaggio del Maestro è distante in maniera abissale dai “parassiti senza dignità” che non hanno voluto e saputo far tesoro della sua cronaca dei nostri tempi. Battiato non chiese mai di assurgere allo status di autorità, e tantomeno ambì a ciò: il suo obiettivo era molto più profondo, ma comunque semplice nella sua complessità.

Ovvero analizzare e poi combinare spirito e materia – i due aspetti della realtà, intonati ne Lo Spirito degli Abissi –, in un’accezione di particolarità dove il primo fosse il traguardo della seconda, e la seconda non mortificasse il primo. Il percorso formativo che Battiato autonomamente si scelse e condusse ha contraddistinto la sua intera letteratura, in giorni “abbaglianti di luminosità”, in cui il suo “giardino era più vicino […] a Dio”. Così René Guénon, Georges Gurdjieff, ed Herman Hesse coesistono nei Magic Shop sventolando Bandiera Bianca; gli immaginari incontri con Igor Stravinskij e i quadri di Claude Monet non stonano con le insidie estive del Giovane Gesualdo, e l’esistenza “di mondi lontanissimi, di civiltà sepolte, di continenti alla deriva” fa rima con un “cammello in una grondaia in questa illustre e onorata società”. Senza abbandonare il sapore dolce della metafora, Battiato è stato un viaggio “in zone rarefatte del pensiero, dove si affina la […] disposizione a vivere che si inebria di stili e discipline, in un insieme irridente di parche voglie”.

La sua capacità di sapersi prendere poco sul serio cercando di essere il più serio possibile, è una caratteristica che soltanto gli estranei alla storia e della storia sanno avere. E Battiato è stato allergico a qualsiasi categorizzazione ed etichettatura, refrattario a qualsiasi corrente e costume, disgustato dalla necessità di essere inquadrato politicamente secondo la svilente e ridicola equazione che per essere o meno credibili culturalmente in Italia occorra un patente di partito o la benedizione del potente di turno – “Non sono né di destra né di sinistra: sto in alto”. Più semplicemente, Battiato è stato al di là di tutto.

Per quelli – come chi scrive – che hanno avuto l’opportunità di scoprirlo, ascoltarlo, studiarlo, approfondirlo, scrutarlo, apprezzarlo, amarlo, ed infine ergerlo a riferimento intellettuale, la sua morte non è la semplice dipartita di un esponente di spicco della genialità nostrana, meridionale e nella fattispecie siciliana (bene evidenziarlo, dato che ci sia sempre bisogno di “ritornare a Sud per seguire […] il destino”): è l’epilogo – annunciato da diversi anni – di un’epoca rivoluzionaria in cui la musica si è fatta sperimentazione ed avanguardia, concetto ed ironia, introspezione e denuncia, fino a raggiungere l’immortalità dell’arte e permeando l’intimità di ognuno in un modo capovolgente, intenso, irripetibile. Un volo che ha sorvolato e folgorato tutti, senza distinzioni di genere, età, estrazione sociale: “torneremo ancora, ancora e ancora” a trovare pace emotiva e stimolo estetico nelle note del Maestro. Perché “solo quando il sacro parla, l’eccelso prende forma”. Grazie, Franco. Di tutto. Per sempre.

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