OGGETTO: Cavalcare la balena
DATA: 22 Aprile 2021
SEZIONE: inEvidenza
Una balena grigia è finita nel golfo di Napoli. Notizia sensazionale. Dovremmo intonare leggende, ma la natura ci esclude dal suo segreto. Piccolo trattato di cetologia mistica
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La notizia più interessante di ieri, incendio nella palude dell’informazione – pressoché indifferenziata –, non è il repertorio dei guaiti di Grillo, i reflui giustizialisti, la cagnara intorno alla Superlega. La vera notizia, battezzata un po’ da tutti, racconta della balena grigia nel golfo di Sorrento: che ci fa lì quel bestione, “la balena dei misteri”, come titola “Repubblica”? L’incontro con l’incongruo, con l’inatteso, non è stato festeggiato come un segno fausto, divino, una benedizione oceanica nella tazzina del Tirreno. Turbe di biologi marini si domandano come è possibile che dal Pacifico la balena sia trottata fino a Napoli?; altri ritengono che il cetaceo provenga dall’Atlantico; Jorge Urban, super esperto di balene grigie, ha detto che a Giacomo Talignani che “i cambiamenti climatici e le temperature elevate dell’Artico, così come avviene per le nuove rotte navali, possano avere aperto passaggi per le grigie”. L’hanno chiamata Wally, chissà perché, un incrocio tra il robottino Wall-E e Willy, l’orca di un film piuttosto banale; è lunga sette metri.

Se Napoli fosse Nantucket, qualcuno, a mo’ di preghiera e di scongiuro, reciterebbe in mezzo ad ogni piazza il capitolo di Moby Dick che s’intitola “Moby Dick”. In quel brano – che non è un inno iliadico ai cacciatori di balene, ma la bibbia dei coraggiosi, il codice che insegna, nella folgore, cos’è il limite e cosa si subisce varcandolo – è detto tutto, ad esempio che “le nascoste vie del capodoglio quando va sotto la superficie rimangono in gran parte inesplicabili… soprattutto l’arcano modo col quale, dopo essersi rapidamente immerso puntando verso le grandi profondità, egli si trasferisce con tanta e tale velocità in punti distantissimi”. Le balene, a dire di Melville, sono Bibbie in moto, leggii shakespeariani, bolidi pieni di salomonica sapienza, dall’intelligenza furibonda: sanno i recessi dell’oceano, cioè i misteri della vita, quando si elevano dalle acque paiono colonne di fuoco, legano nella loro scia planetaria ogni creatura, forse le costellazioni sono incise nel loro corpo infinito, perfino i mondi che verranno. Ubiqua, gigantesca, esegeta delle vertigini, stretta tra l’acqua e l’aria: la balena ha aggettivi che cingono un dio. Prima di studiarla bisogna inchinarsi al cospetto di una balena.

La balena, infine, è un mondo, una casa: il mito dell’uomo inghiottito dal leviatano valica le civiltà. La preghiera di Giona, che “restò nel ventre del pesce tre giorni e tre notti”, implica la necessità di sprofondare “nell’abisso, nel cuore del mare”: è lì che l’uomo scopre se stesso. Le balene sono enormi lanterne che illuminano l’oscuro, un creato autonomo: dobbiamo nascere la seconda volta dal corpo del cetaceo (per lo meno, guardate Big Fish di Tim Burton per chiarire l’arcano). A proposito della balena come casa, Melville ricalca un brandello da un racconto dell’amico Nathaniel Hawthorne: “Costruii una casetta per Susan e per me e l’entrata la feci a forma di arco, utilizzando le ossa mandibolari d’una balena”. Una enigmatica quiete aleggia nella balena/casa.

Le popolazioni artiche che abitano lo Stretto di Bering vivono in simbiosi con le balene, di cui si cibano. “Il culto della balena comprende i riti: propiziatorio, che viene eseguito prima di iniziare la caccia e di benvenuto, che si svolge quando la balena morta è tirata a riva. Uno dei tratti più significativi di quest’ultimo rito è la danza di benvenuto eseguita dalle donne del villaggio, abbigliate per l’occasione a festa, e l’offerta di acqua o cibo alla balena appena uccisa. Un tempo, le donne korjake andavano incontro alla balena sulla riva del mare con rami di ontano e con tizzoni accesi tolti dal focolare domestico” (Il tamburo magico. Miti e leggende dei popoli artici, 1997). Accogliere le balene, falò oceanici, con le torce della casa, dando ospitalità all’anima del cetaceo ucciso: che gesto possente.

Più che misurare, pesare, installare in numeri la balena che scorrazza al largo di Sorrento, dovremmo chiederle chi è, dove affonda la sua genealogia, l’angelologia dei sentimenti, e decrittare il suo linguaggio, ancora oscuro. Su “cosa provano e pensano gli animali” ha scritto un libro suggestivo Carl Safina, tradotto da Adelphi nel 2018 come Al di là delle parole. Un passaggio tenta di illustrare il rapporto che le grandi creature marine hanno verso i morti.

“Nel settembre del 2010, vicino all’isola di San Juan, nelle acque dello stato di Washington, fu avvistata un’orca che per sei ore tenne a galla un neonato morto. Se quest’orca avesse compreso la morte in modo esclusivamente razionale, l’avrebbe semplicemente lasciato andare. Nemmeno gli esseri umani, del resto, si limitano ad abbandonare i loro figli morti. Per noi esiste un concetto della morte, e anche un sentimento di dolore. I nostri legami sono forti. Non vogliamo staccarci. Anche i loro legami sono forti – e forse nemmeno loro vogliono staccarsi. Qualche anno fa, a Long Island, una giovane megattera, ancora in età da essere allattata, per qualche motivo sofferente e sola ma ancora viva, venne spinta dalle onde sul litorale di East Hampton. Marge Winski – guardiana del faro di Montauk, che dista venticinque chilometri scarsi – mi raccontò di come, la notte successiva allo spiaggiamento della piccola megattera, avesse udito «richiami incredibilmente tristi», che parevano emessi da una madre alla ricerca del figlio”.

Anche il canto delle balene è fenomeno noto e studiato; ma quali miti intreccia quel canto, che cosa racconta, da quale fiaba siamo estromessi? Mentre la balena fa il bagno nella tinozza mediterranea, National Geographic, dal 22 aprile, manda in onda Secrets of the Whales: il documentario, prodotto da James Cameron, narrato da Sigourney Weaver e realizzato, in quattro anni, da Brian Skerry. Le balene, ha detto al “Corriere della sera” il grande fotoreporter dei mari, “si raccontano storie e leggende… hanno lingue e dialetti”. Sbilanciati in questo lato di civiltà, esclusi dal regno, dunque dal mito, assistiamo alla natura attraverso documentari tanto più ‘coinvolgenti’ quanto più siamo estranei al mondo che vi si rappresenta, il nostro. La cronaca ha preso il posto della leggenda, la chiacchiera della favola, l’abrasione social sostituisce il rito di passaggio. Chi può dire di aver avuto un incontro sconvolgente, immediato – cioè, senza la mediazione delle crociere o dei viaggi organizzati o dei documentari da divano – con la bestia? Di fronte agli animali domestici, la fugace apparizione di una volpe alla periferia di Dublino, tra i cassonetti, ci sembra un richiamo insondabile, quasi un’ustione; un corvo sembra tenere sotto ricatto l’azzurro del cielo; il rapace ci rapina per la sonora necessità del rischio.

“L’animalità è uno degli aspetti dell’umanità, e non il meno importante. Benché questo sentimento di comunione profonda abbia finito per allentarsi, in Siberia ne rimangono tracce rivelatrici, sia in tradizioni tuttora vive, sia nel folklore di alcuni popoli. Una volta, all’epoca in cui – per capirci – le bestie parlavano, gli animali non temevano l’uomo e intrattenevano con lui relazioni di buon vicinato. Le antiche leggende siberiane narrano di un’epoca idilliaca in cui l’uomo si nutriva di piante e non uccideva gli animali. Ancora non se ne distingueva nettamente. Dopo la morte, l’uomo passa in un altro mondo, si reincarna, va incontro a destini diversi a seconda delle credenze delle varie tribù. Ma, il più delle volte, dopo un certo numero di esistenze si trasforma in animale, prima di sparire per sempre”, scrive Éveline Lot-Falck in un libro decisivo, I riti di caccia dei popoli siberiani (Adelphi, 2018). Non si sutura questa distanza dall’animale, irrevocabile, con il turismo o con l’ecologismo modaiolo. Se non possiamo agire nel regno – per inabilità –, ci è consentito contemplare, risvegliando la sopita intelligenza mitica. Celiamo il segreto nella coltre delle storie, preferiamo il mare allo schermo, parliamo coi ragni.

Aua, sciamano del grande Nord, racconta a Knud Rasmussen, il regale esploratore della Groenlandia e dei suoi labirinti glaciali, che gli uomini “devono purificarsi sul fondo del mare prima di giungere nel paese dei morti”. La balena dona la vita – fa nascere Giona la seconda volta – e conduce nel regno al di là: è una porta. Nel fondo del mare giacciono le stelle e dimora “la madre degli animali”: lo sciamano le carezza i capelli, che “le scendono sul viso e sugli occhi, spettinati e arruffati”, per ottenere il suo favore.

Dicono che le balene sognano: non sappiamo se sia un sogno blu, cromato di desideri, in forma di basilica. Chissà se le balene sognano gli uomini – a noi non resta che sognarle, immaginare, tra i trucioli del sogno, di cavalcarle.

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