OGGETTO: Avremo sempre l'estate italiana
DATA: 27 Luglio 2020
SEZIONE: inEvidenza
Amori perduti, luoghi, film, attori e attrici, tormentoni intramontabili, promiscuità balneari, riforme di ferragosto, e poi sogni, speranza, tradimenti, addii, gelati, Super Santos: l'estate italiana è molto più di una stagione, è una festa di cliché, un mito collettivo che descrive al meglio il nostro carattere nazionale. L'editoriale dell'ultimo numero del Bestiario in esclusiva sull'Intellettuale Dissidente.
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L’estate – questa stagione estrema e pagana, a cui tutte le altre, come dice Flaiano, “girano attorno” – in Italia è ormai una sorta di mito, con una sua precisa iconografia, un universo danzante di simboli, stereotipi, cliché. All’estate italiana si dedicano festival, rassegne cinematografiche, mostre, libri, convegni. Le statue, però, generalmente si innalzano ai morti, perciò ci viene il dubbio che l’estate italiana sia finita, e che proprio la sua fine ne decreti la conversione in mito.

È finita infatti l’epoca delle città deserte, come la Roma ferragostana immortala da Dino Risi nel Sorpasso, è finita l’epoca d’oro della costiera romagnola, come quella frenetica della Capannina di Forte dei Marmi, quella della Capri di Moravia e Malaparte o dell’Isola di Arturo, la Procida di Elsa Morante, quella dell’estate romana, rigorosamente in Vespa, alla Audrey Hepburn e Gregory Peck, è finita l’estate delle “mille bolle blu”, del boom, quella ruggente, degli imprenditori con l’alfa decapottabile, ma anche quella nazional-popolare lunga tre mesi, delle mete sempre uguali, delle file ai caselli, dei pranzi al sacco, delle foreste di ombrelloni. È finita l’estate delle transumanze di bestie e pastori, delle notti sotto le stelle a raccontare storie intorno al fuoco, le capanne lepine alle spalle. Ma è finita anche l’estate a ritroso, di chi dalla costa sale verso l’entroterra appenninico, nel Paese natale, perché in quelle case natali oggi non c’è più nessuno ad aspettare. È finito il candore balneare dei ragazzi in slip intervistati da Pasolini in Comizi d’Amore, ma è finita anche un’estate più vicina, quella delle nuvole rigonfie di speranza di Rino Gaetano, quella dei Ray Ban Folding Wayfarer di Battiato, della nostalgia dei Righeira, del Festival Bar, quella dei calippo, dei cornetti, dei Super Santos, delle foto Kodak, delle fascette di spugna tra i capelli, dei tormentoni, l’estate di Italia ’90.

È finita l’estate italiana, è iniziato il mito, il racconto, la fiaba: un topos letterario e narrativo, cinematografico e artistico, talvolta addirittura un brand, in ogni caso un potente generatore di simboli e cliché che ogni anno si riattiva nel nostro immaginario, anche se la realtà che viviamo non è più quella di prima. Perché, allora, continuiamo ad attingere da questo contenitore invece di crearne uno nuovo, con nuovi simboli e nuovi cliché? Perché tutta questa nostalgia per un tempo che non abbiamo mai vissuto? Possibile che la disillusione verso il futuro ci abbia costretto a ripiegare su un passato che idealizziamo? Difatti, le rassegne cinematografiche estive abbondano di vecchie pellicole degli anni Sessanta, quelle di Risi, Zampa, Emmer, i maestri del cinema spiaggiato, oppure quelle dei Vanzina di Sapore di mare. In ambito musicale c’è un continuo remake di passati tormentoni estivi, e uno degli ultimi, a firma dei The Giornalisti, Riccione, è un’ode agli anni ’80. Nel videoclip, oltre agli espliciti riferimenti a Baywatch, compaiono zaini Invicta, gameboy, cedrate Tassoni, biliardini, racchettoni, carte piacentine: un’oggettistica in via d’estinzione. Ma possiamo davvero affermare che l’estate italiana sia sospesa in una condizione solo nostalgica? Se fosse qualcosa di più di un mito, di un passato “inventato” da cui trarre significati obsoleti? Se fosse una festa di cliché talmente ben riuscita da aver toccato corde universali e perpetue del nostro vivere italiano? Se questo passato ci parlasse ancora? Se ogni estate riusciamo a riattivare questo generatore simbolico con così tanta intensità da dargli nuova vita, da incorporarlo nel presente, da fare in modo che aderisca così fedelmente alle nostre aspettative, allora forse è perché si tratta di una costante antropologica, un mito animato e non imbalsamato, che contempla la nostalgia ma come obbligo “attivo”, riuscendo ancora a creare fenomeni di adesione, emulazione, partecipazione, mobilitazione, a distribuire sentimenti come oggetti, a fare degli oggetti portatori di sentimenti.

Umberto Eco diceva una cosa a proposito del film Casablanca che potremo riutilizzare in questo contesto: «Quando tutti gli archetipi irrompono senza decenza, si raggiungono profondità omeriche. Due cliché fanno ridere. Cento cliché commuovono. Perché si avverte oscuramente che i cliché stanno parlando tra loro e celebrano una festa di ritrovamento. Come il colmo del dolore incontra la voluttà e il colmo della perversione rasenta l’energia mistica, il colmo della banalità lascia intravvedere un sospetto di sublime». Ecco, forse noi potremo dire lo stesso dell’estate italiana, questa stagione che l’italiano vive per dimenticarsi di sé stesso (politicamente, professionalmente, individualmente), come fosse un tempo sospeso in cui ci si può congedare senza rimorsi dalla propria identità, e che gli serve da cesura con il passato: traguardo ambito per un anno e insieme linea di partenza per futuri progetti. Ecco: questa festa dell’oblio in cui tutti i luoghi comuni si celebrano a vicenda parla davvero di noi, e noi parliamo di noi stessi, tutti quanti, attraverso di essa, come se l’estate italiana fosse ancora una lingua viva nonostante sia finita un’epoca: quella industriale e fordista, quella delle classi, della classe media come di quell’alta borghesia che in Italia non ha mai avuto un vero respiro internazionale, e ha sempre preferito fare le vacanze dietro l’angolo.

E non importa se oggi il mondo è cambiato. Non importa se si fanno vacanze super-intelligenti, suggerite da un algoritmo, quello che ci raccomanda, attraverso un pop-up pubblicitario, la meta esotica da raggiungere. Estati di vacanze brevi, perché non c’è più una lira in giro, di voli low coast, pilotate e organizzate nei minimi dettagli, un po’ alla Furio di Verdone, magari con una Lonely Planet nello zaino, come un bignami del pessimo viaggiatore che vuole garantirsi il massimo vedibile con il minimo sforzo.

Non importa, perché ogni tanto ci capita ancora di riconoscerci in quei diciottenni che rispondevano timidamente alle domande di Pasolini, perché ogni estate un bacio ha lo stesso profumo del primo, e tutti abbiamo piazzato amori sotto il sole, e nella sabbia e nel sole siamo rimasti ad aspettare una donna con sulle labbra il sapore di cose perdute. Perché a Roma d’estate anche uno scooter diventa una vespa, e l’anonima utilitaria con la quale scorazziamo per i litorali deturpati dall’abusivismo edilizio sembra la Lancia Aurelia che guidava Gassmann nel Sorpasso, e ci scopriamo tutti a tratti mattatori come lui, a tratti malinconici come Trintignant, sciagurati e goffi come la famiglia Passaguai di Fabrizi quando andiamo al mare con i parenti. Perché ognuno di noi ha provato la “celeste nostalgia” di un amore mancato, con cui si chiude il film Sapore di mare. Ognuno ha un suo scoglio come un faraglione di Capri, ognuno ha il suo porto anche sotto un cielo di città, la sua solitary beach in un metro quadro di sabbia, le sue “lunghe spiagge di silicio”, ognuno ha un mare  in cui voler annegare e conserva il ricordo di “grandi mattini / dell’albe senza rumore”, o di pomeriggi di “riposi enormi”, con le tapparelle abbassate, le atmosfere rarefatte, quando aspettavamo qualcuno o qualcosa, la donna amata magari, e in quei silenzi estivi l’eternità ci cascava dentro, come il tuffo di un bambino.

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