L’uomo oggi odia stare da solo, cerca di colmare ogni possibile vuoto lo possa mettere di fronte a se stesso, o meglio, di fronte all’assenza di sé. Una ricorrenza che si traduce, paradossalmente, in una duplicazione della propria solitudine, che viene moltiplicata in quanto dissimulata, insorge mentre la si sta soffocando, esplode mentre si cerca di tapparla. Si accresce così una insofferenza verso ogni tipo di azione priva di progetto, di suono, la massima sospensione nel quale riusciamo a immergerci è il tanto hashtaggato relax, che ha poco a che fare con la solitudine. È in questo contesto che il momento dell’attesa viene completamente sottovalutato e accantonato. L’attesa diviene un ostacolo, una linea che mi separa da ciò che voglio immediatamente, qui ed ora. L’attesa viene spacciata come passività. L’attesa, soprattutto, viene dimenticata appena muore.
Nel 1988 Feltrinelli pubblica un libricino di Ginevra Bompiani, “L’attesa”, che potremmo definire una vera e propria apologia filosofico-letteraria dell’attesa. Un lavoro non banale, necessario, che permette ulteriormente, se ve ne fosse bisogno, di emancipare la figura intellettuale della Bompiani dalla pesante eredità anagrafica ricevuta dal padre Valentino, nonché dalla sua storia d’amore con una delle menti più brillanti del Novecento italiano, Giorgio Agamben. Nonostante la brevità del testo, tanti sono gli spunti incisivi che la Bompiani evidenzia. Il punto di partenza del testo è una proposizione di Wittgenstein contenuta nelle “Ricerche filosofiche”:
Noi aspettiamo questo e siamo sorpresi da quello.
Una frase che sconvolge la Bompiani. Come interpretarla? Secondo la scrittrice il nucleo della proposizione è questo: colui che aspettiamo, l’atteso, non è colui che arriva, l’ospite. Perché? Perché colui che aspettiamo appartiene all’immaginario e al linguaggio, colui che arriva appartiene all’evento. Non dobbiamo stupirci se la conclusione di quanto detto è che ogni attesa non può che essere insoddisfatta, non può che mancare, perché l’attesa è sempre attesa di qualcosa, dice Wittgenstein. La disimmetria è il sangue dell’attesa, non solo perché c’è differenza tra l’oggetto-evento che immagino e l’oggetto-evento realizzato, ma perché la disimmetria costituisce la caratteristica essenziale dell’attesa, similmente al desiderio. Blanchot nella “Conversazione infinita” ripete che l’oggetto del desiderio non è ciò che mi permette di soddisfarlo. L’oggetto del desiderio è il desiderio stesso, ed è proprio per questo che il desiderio, come l’attesa, è sempre insoddisfatto. La convinzione di porre fine a queste catene volitive continue con un punto d’arrivo, con un risultato, con un traguardo non sono che atteggiamenti nevrotici che rientrano all’interno del meccanismo desiderio-attesa, che lo alimentano credendo di porvi fine. Il festeggiamento è la massima manifestazione di questa illusione.
Il termine attesa sembra legato a quello di sorpresa. Se ha ragione Wittgenstein, se l’attesa è attesa di questo ma sopraggiungimento di quello, allora è lecito dire che il tempo dell’attesa è il tempo della sorpresa. Il discorso sembra stare in piedi anche prendendo esempi quotidiani. La mela che mangio, oggetto che Wittgenstein prende ad esempio in continuazione, è necessariamente diversa dalla mela alla quale pensavo mentre sentivo il bisogno di mangiarla. Non solo perché sono ontologicamente su piani differenti, ma anche perché quella mela può avere un sapore più o meno dolce di quanto potessi pensare, può avere un vermetto che si è infiltrato al suo interno, può addirittura non esserci nessuna mela nella fruttiera, nonostante fossi convinto del contrario. Quello che l’attesa prefigura nella sua espressione non è la cosa attesa, ma il suo avvento.
La sorpresa quindi è un arresto dell’attesa, nonostante in realtà sorpresa e attesa formino una coppia inevitabilmente legata. Di questa coppia, l’arte, soprattutto quella surrealista, privilegia la sorpresa, che diventa sinonimo di sogno, incipit, risveglio, ispirazione poetica. De Chirico diceva di non poter dipingere se non colto dalla sorpresa, Benjamin parla di “stato di sorpresa”, è questo il momento in cui l’artista è produttivo, quando fa dell’arte la reazione alla sorpresa. D’altronde, non bisogna dimenticarsi l’importanza del concetto di sorpresa in filosofia. Celebre è la definizione aristotelica della filosofia come ricerca della meraviglia, dello stupore. Definizione peraltro invertita dal Novecento, attraverso due filosofi su tutti, Nietzsche e Blanchot. Il francese risponde sentenziosamente alla domanda “Che cos’è un filosofo?”: una persona che ha paura. Nietzsche nella “Gaia Scienza” darà una definizione della filosofia assolutamente aporetica: se la filosofia è portare l’ignoto al noto non è corretto parlare di meraviglia, non c’è nulla da stupirsi nel ricondurre tutto al consapevole. Si potrà parlare di meraviglia, o meglio, di spavento, di sorpresa, solo se la filosofia è mettere in discussione il noto, solamente se si è auto-provocatori, esodi dalle proprie isole. Non avere una casa, mai.
Una volta accennato il legame tra attesa e sorpresa, è necessario evidenziare che quello che è lo stimmung dell’attesa, un concetto senza il quale l’attesa non può essere definita. Di cosa stiamo parlando? Della noia. In realtà, per quanto siano due concetti simili, tra noia e attesa vi è una differenza essenziale, che la Bompiani insiste a evidenziare. La noia è una forma allentata dell’attesa, è un’attesa senza direzione, senza forma. Quando l’oggetto dell’attesa non c’è, scompare, l’attesa si allenta e diventa noia. Magistrale Leopardi nelle “Operette Morali”, quando descrive un dialogo che il Tasso ha con il suo genio, quest’ultimo dice al poeta che dovrà vivere la sua vita tra la noia e il dolore.
Allora il Tasso dice che la noia la conosce bene, gli sembra sia della natura dell’aria, è la noia a fargli notare per passatempo i tocchi dell’oriuolo, annoverare le correnti, le fessure e i tarli del palco, considerare il mattonato nel pavimento, trastullarsi colle farfalle e coi moscerini che vanno attorno alla stanza. Il genio allora dice una cosa sorprendente, ovvero che la noia è il desiderio puro della felicità. Quella felicità che, secondo il genio, è sempre passato o futuro, mai presente. Difficile commentare queste parole, è davvero notevole quanto questi passi ricordino le riflessioni esistenzialiste e fenomenologiche del Novecento francese e tedesco. Tanto più passato e futuro sono ciò che non è più e ciò che non è ancora, tanto più influenzano il nostro presente, tant’è che viviamo in una continua proiezione, in un continuo trascendere l’ora e il qui, in un’attesa perpetua. L’unica presenza che conosciamo è l’assenza.
Per molti la noia è il contrario del divertimento; e divertimento è distrazione, dimenticanza. Per me, invece, la noia non è il contrario del divertimento; potrei dire, anzi, addirittura, che per certi aspetti essa rassomiglia al divertimento in quanto, appunto, provoca distrazione e dimenticanza, sia pure di un genere molto particolare. La noia, per me, è propriamente una specie di insufficienza o inadeguatezza o scarsità della realtà.
(Moravia, “La noia”)
Non potendoci dilungare sulla statuto quasi epistemologico che la noia ha nel romanzo di Moravia (la noia dell’Europa faceva scoprire l’America; la noia del feudalesimo provocava la rivoluzione francese; e quella del capitalismo, la rivoluzione russa), per il nostro discorso è necessario evidenziare quanto la noia diventi la malattia esistenziale per eccellenza dei protagonisti letterari dell’Otto-Novecento. Una noia, sia ben chiaro, che non è passività, ma atrofia. È il caso di Oblomov, personaggio solo apparentemente bizzarro e fantozziano. Un trentenne che passa la sua esistenza sul divano, lasciando agli altri le mansioni, le vicissitudini, i pettegolezzi. Un venir meno. Una caduta nello zelo come risposta all’esistenza, che non è mai abbastanza, e alla società che ci uccide, dice Artaud. La noia è questo lasciarsi sfiorare e trapassare dalla vita, è abbandonare il gioco, chiedere venia e osservarlo da lontano, Vladimir ed Estragon di “Aspettando Godot” sono esempi lampanti di questo abbandono.
Annoiarsi è uno sbiadirsi, come fa lo “Straniero” di Camus, che ha azzerato così tanto i criteri e i valori della sua esistenza che eventi come la morte della madre e l’uccisione di un uomo non gli provocano emozione alcuna. La noia è il primo sintomo della crisi dell’azione, del nichilismo. Questi aspetti apparentemente “negativi” della noia in realtà contengono fattori che sono necessari per una mente, soprattutto se quella mente ambisce a creare artisticamente qualcosa. La noia è il primo ingrediente affinché, non contento del mondo in cui si trova, l’artista ne crei un altro. La noia diventa la forma di ribellione più radicale di fronte ai criteri di utilità, lavoro, produzione, ricchezza. Ribalta tutto questo, rivendicando la necessità di benedire le nostre coscienze col ruscello del vuoto, dell’inoperoso. Questo non vuol dire che stare sul divano debba essere l’auspicio. Significa bensì creare i presupposti affinché, una volta attinto da quella dimensione, si possa uscirne diversi, nuovi, gravidi.
A tal proposito, mi permetto una fascinazione letteraria che rinvia a due libri di Georges Perec. Il primo libro è “Un uomo che dorme”, testo incentrato sulla figura di un ragazzo che il giorno di un esame decide di rimanere a letto a dormire e non fare nulla per il resto del giorno. Privo di desideri, ambizioni, speranza, sicurezze passa la sua vita tra la stanza di casa, i vicoli parigini e la noia di vivere (tema dell’attesa chiaramente presente, frasi come “non c’è niente da capire, solo da guardare” lo confermano). Il secondo libro è il capolavoro di Perec, ovvero “La vita: istruzioni per l’uso”. Impossibile riassumere le mille peripezie che avvengono in questo romanzo, per quelli che sono i nostri interessi diciamo che il protagonista è il miliardario Bartlebooth che decide
di fronte l’inestricabile incoerenza del mondo […], di portare fino in fondo un programma, ristretto, sì, ma intero, intatto, irriducibile. […] Di organizzare tutta la sua vita intorno a un progetto unico la cui necessità arbitraria non avrebbe avuto scopo diverso da sé.
Qual è il progetto? Bartlebooth viaggia per il mondo dipingendo una marina, una ogni quindici giorni, dopodiché invia il quadro ad un artigiano specializzato che ne fa un puzzle, di 750 pezzi esatti. Tornato in Francia ricompone il puzzle, uno ogni quindici giorni, dopodiché spedisce il puzzle nei luoghi in cui sono stati dipinti. Ecco, mi piace pensare che l’uomo che dorme del primo romanzo, perso in se stesso e nella propria atrofia, in realtà sia lo stesso Bartlebooth, che conscio dell’attesa, della noia, dell’inadeguatezza della vita decide di affidarsi a un programma, un progetto che, per quanto assurdo, dà senso alla sua esistenza. Forse in questo consiste la potenzialità dell’attesa.
Una delle più belle riflessioni sull’attesa è stata proposta da Heidegger in una lezione del 1944. Heidegger fa la distinzione tra “attendere” (erwarten) ed “essere in attesa” (warten). “Attendere” è un appendersi a un atto di rappresentazione e a quel che rappresenta, mentre l’attesa si sottrae alla rappresentazione, perché non ha oggetto. L’attesa è abbandono, affidarsi all’apertura del mondo. Ecco perché l’attesa è tanto importante secondo Heidegger, perché è ciò che più si avvicina all’essenza del pensiero. L’attesa è ciò che si produce quando – abbandonato ogni volere – si è in attesa di qualcosa che non sai cos’è. L’attesa è quel che le cose non hanno: la facoltà di abbandonarsi. Le cose non si abbandonano. L’attesa non vuole niente, non si rappresenta, si riposa. Quanto abbiamo detto in precedenza sulla noia è perfettamente aderente con le parole di Heidegger. Si attende per attendere, è questo il valore dell’attesa.
L’attesa è sempre l’attesa dell’attesa, ricominciando in essa l’inizio, sospendendo la fine e, in questo intervallo, aprendo l’intervallo di un’altra attesa. […] Quando c’è attesa, non c’è attesa di nulla.
(Blanchot, “L’attesa, l’oblio”)
Ecco il paradosso misterioso che circumnaviga l’attesa. La domanda da porsi è la seguente: ma di che cosa si è in attesa? Con gli ingredienti che ci siamo raccattati fino ad ora possiamo dire che l’attesa non è attesa che di se stessa, così come il desiderio non desidera che desiderare, l’attesa, di per sé, non fa che attendere. Per citare nuovamente la Bompiani, potremmo dire che è sempre me che aspetto, ma è sempre l’altro che arriva. Aspetto me perché aspetto a partire da me, dai miei desideri, dalle mie angosce, dalle mie ansie, dalle mie aspettative. Ma ciò che ottengo è sempre l’altro, che eccede ogni mia mieità. Quello che accade nell’attesa e al suo termine è forse spiegabile tramite le celebri riflessioni di Lévinas sull’esperienza del Viso: il viso è quella presenza che non posso dominare con lo sguardo, che trascende sempre la rappresentazione che posso farmene e ogni forma, immagine, visione. Per quanto il viso di una persona possa esserci famigliare, tra la descrizione o il ricordo che possiamo darne e l’esperienza quel viso ci sarà sempre una differenza, la differenza, incolmabile.
Forse è proprio questo carattere problematico, auto-contradditorio e angoscioso dell’attesa che ce la fa così poco sopportare. Tappezziamo i buchi liberi dei nostri giorni per incontrarla il meno possibile, abbiamo sempre meno spazio e tempo di attendere e di annoiarci. Come concludere questa riflessione senza incorrere nel pericolo che, alla fin fine, una “rivalorizzazione” dell’attesa possa diramarsi solo in balletti filosofici astratti e non in qualche effettivo input pratico? Forse alludendo al carattere rivoluzionario dell’attesa che diventa, oggi più che mai, una manifestazione concreta di consapevolezza e ribellione, un’esigenza che bisogna conservare. Solamente vivendo l’esperienza dell’attesa e della noia dell’uomo che dorme possiamo, secondo l’esempio di Bartlebooth, immergerci in un’esistenza a cui diamo noi il significato.