Ho una mente simbolica – per questo, credo che si vada in Artico per perfezionare la nostra idea di innocenza. È assurdo, a pensarci. Il bianco Artico non offre alcuna didattica, non purifica: acceca, piuttosto. Ma continuo a credere che si vada lassù, nell’inospitale, per disintegrare se stessi, perché il gelo scarti i confini tra il nostro corpo e il tempo – per rompere lo specchio e incendiare l’icona, ecco. Di solito – faccio per dire – se mi trovo di fronte a un cervo, a un falco, a una volpe, non penso alla bestia e al suo odore, ma al simbolo. Il mondo, ai miei occhi, resta un magnifico erbario, un bestiario – eppure, non so più il valore dei simboli, né cosa indichino i segni, se siano un conforto o un contrasto. Sono pronto, per questo, a credere a tutte le bestie immaginarie.
Il mito degli Iperborei, che vivono nel Nord immaginato, nell’alcova del sole, nasce “in connessione a motivi sciamanici, a capacità divinatorie, magiche, di guarigioni”, ci spiega Giorgio Colli. Si va all’Artico per guarire da se stessi? “Hanno gli occhi nelle stelle e l’anima nel mare”, scrive degli Iperborei lo Pseudo-Longino, sognando un regno sui ghiacci. “E ciascuno ha un occhio solo sulla fronte ampia/ dalla chioma irsuta, tra gli uomini i più forti”, scrive il poeta bizantino Giovanni Tzetze. A proposito di Aristea, il leggendario taumaturgo che visitò il Nord, è detto che “l’anima di costui, quando voleva, usciva fuori e tornava di nuovo indietro”: dagli Iperborei, dagli sciamani, aveva imparato la pratica dell’uscire fuori di sé.
C’è un’attrazione – che ha valore di schianto – verso il Nord, simile a quella, vertiginosa, che si ha verso l’oscuro, la notte. Come se, sconfinando da noi, qualcosa, qualcuno potesse rifarci – oppure, semplicemente, ammiriamo le nostre spoglie, preda delle iene dell’oblio. Chi torna dall’Artico – come chi scende da una montagna – è sempre un risorto.
La filosofia finisce qui. Mi ha spiazzato, piuttosto, una fotografia scattata di recente in Artico. Due orsi si aggirano intorno alle bandiere, che segnalano, per gli scienziati umani, la consistenza del ghiaccio e il luogo dove scorrono i cavi di alimentazione. Irradiazione elettrica e istinto bestiale: gli orsi sembrano due papi che vagliano ciò che resta dell’apocalisse, alla ricerca, famelica, di fedeli e fiduciari. Il bianco degli orsi nel bianco abbacinante della banchisa: forma che precede il primo giorno, figura miniata in un monastero a picco, dal Medioevo gelido. La fotografia è scattata di notte: l’obbiettivo cerchia gli orsi, le bandiere, un’aureola di banchisa; il resto è nero, un nero originario. Si direbbe che il nero, quell’oscurità, sgorghi dal bianco, con potenza letale. La fotografia – insieme a un ciclo di altre – l’ha scattata Esther Horvath, ungherese, che da qualche anno si dedica a servizi in artico. L’ultimo lavoro s’intitola Into the Arctic Ice, un libro che fotografa The Largest Polar Expedition of All Time. Si tratta della spedizione Mosaic, partita nel settembre del 2019 da Tromsø, in Norvegia, con un equipaggio complessivo di seicento ricercatori da venti paesi diversi, “alloggiati sul rompighiaccio tedesco Polarsern, per trascorrere un anno alla deriva, intrappolati nei ghiacci, attraverso l’Oceano Atlantico”. La missione, così raccontano loro, nasce “per studiare come mai prima l’Artico e capire meglio il cambiamento climatico globale”; è durata pressappoco un anno, valicando gli estremi dell’inverno polare. Negli anni Venti Knud Rasmussen, il grande esploratore e antropologo danese, attraversò la Groenlandia in slitta, per “descrivere lo spirito e la fantasia eschimesi… un esempio di tempra, di forza e di umana bellezza”. Oggi, si va al Nord con un rompighiaccio, ad ascoltare il canto degli iceberg, che ha il fischio della lamentazione biblica.
Non so se il clima condizioni una meteorologia mitica – ovunque, il mito ha denti, perché il mostro giace nell’uomo – eppure a Nord la bestia è sempre un’apparizione. Quel bianco, in effetti, pare la laringe di Dio: ne sei inghiottito. Al di là delle frasi di buon senso, di politica ambientalista, Esther Horvath è efficace quando racconta la notte polare. “Il 4 ottobre la nave ha spento i motori, per cedersi al ghiaccio. L’ultimo giorno di luce. Le giornate si accorciavano con velocità radicale. Non vedevi le stelle. Non riuscivi a sentire le voci, a causa del vento, costante… Puoi tornare sulla Terra, da una stazione spaziale, su una capsula, in un certo numero di ore. Se fosse successo qualcosa alla Polarstern, una barca di salvataggio avrebbe impiegato almeno due o tre settimane per raggiungerci. Ho passato tre mesi e mezzo sulla nave. Ogni volta che scendevo sul ghiaccio ero eccitata, come una bimba. L’oscurità della notte polare. Mi manca. Terribilmente. Non esiste un posto simile sulla Terra”. La notte polare: nel racconto sembra un immenso velo, una Veronica, che prende il calco di quelli che la varcano; qualcosa di ineluttabile giace al Polo. Dal 2015 Esther fotografa l’Artico: in una immagine gli uomini, bardati, nel bianco, sembrano Ciclopi, gli esseri cantati un millennio fa nel poema di Giovanni Tzetze; l’unico occhio, in mezzo al cranio, è la torcia. Più che una variazione sulla purezza, il Polo illumina la debolezza dell’uomo e l’indole a percorrere i luoghi che possono ammazzarlo.
A forza di dipingere il Nord, Eric Ravilious sparì nei cieli islandesi: l’ossessione non è la riproduzione. Non si tratta di ideare un’iconografia ma di sfigurare il candore. Da bambino, mio padre mi ha regalato un libro sul lupo artico. Le fotografie di caccia sono violente e suggestive: sembrava impossibile – nella mente di un bambino – che un corpo bianco potesse essere tanto feroce. Ma come non esiste la ferocia non esiste la bianchezza teorizzata da Melville, se non come surplus di crudeltà: come uccide un angelo? Dalle parole di chi lo racconta, è chiaro che il ghiaccio è fuoco, che Artide è un falò.