Mentre a Guadalcanal si combatte senza sosta, gli altri settori dell’immenso fronte Indo-pacifico rimangono marginali. La campagna di Guadalcanal (agosto 1942 – febbraio 1943) ha preteso dai contendenti la massima attenzione ed energie. Ad ogni modo, anche per sopperire al trauma psicologico di Midway, il gabinetto Tōjō e il Gran Quartiere Generale Imperiale Dai Honei decidono di mantenere l’apparenza di una continua offensiva, come se l’iniziativa fosse ancora assoluta prerogativa del Giappone. Ma è un placebo strategico, un’illusione propagandistica per non rendersi conto della realtà che dopo Midway e Guadalcanal è fosca e non fa presagire nulla di buono. Il Giappone occupa le isole Nauru e Ocean in Micronesia. Interessante scoprire che Nauru (ex possedimento germanico) è stata vittima di un blitz della tedesca Kriegsmarine, condotto il giorno precedente di Pearl Harbour. La marina del Terzo Reich si spinge fino a lì per affondare mercantili e prendere a cannonate le miniere di fosfato dell’isola. Ora tocca ai giapponesi.
Il 24 settembre ’42 la marina imperiale lancia una massiccia operazione per occupare le restanti isole dell’arcipelago delle Gilbert, all’epoca colonia britannica e oggi conosciute con il nome di Repubblica delle Kiribati. Nel frattempo, al quartier generale della marina, gli ammiragli eccitatissimi studiano un’operazione eclatante, “alla nipponica”, per attaccare con una flotta le coste degli Stati Uniti: una missione aeronavale alla mordi e fuggi per portare il terrore direttamente nelle case degli americani. Ma al di là dell’entusiasmo degli ufficiali, le battaglie nel Mar dei Coralli e Midway impediscono l’attuazione del piano perché mancano i mezzi. Si ripiega allora ad un’impresa molto ridotta, quasi buffa nella sua esecuzione. Parte un unico sommergibile con a bordo un idrovolante leggero smontato che raggiunge le coste dell’Oregon. In una notte di settembre, il piccolo idrovolante viene montato e si alza al volo all’alba, con a bordo un pilota solitario (come già scritto nel capitolo di Midway, ecco ritornare all’immaginazione divertita la simpatica macchietta fumettistica del fiero alleaten del Sol Levante, personaggio inventato dal disegnatore Bonvi nelle sue strisce comiche Sturmtruppen). Il fiero pilota alleaten penetra in territorio yankee per 80 chilometri. Raggiunta una foresta sgancia due grosse bombe incendiarie. Dopo una settimana, questa volta di notte, l’incursione si ripete identica. L’idea è quella di appiccare uno spaventoso incendio che mandi in fumo le immense foreste dell’Oregon per paralizzarne l’economia e diffondere il panico nella popolazione. Solo che gli americani non se ne accorgono neanche. Flop totale.
Tornando a scenari più rilevanti, l’esercito del Mikado insiste sul fronte della Papuasia, in Nuova Guinea. Australia: sempre il medesimo sogno proibito che accende la cupidigia degli alti ufficiali; per arrivare all’Australia occorre il dominio della Nuova Guinea e dove non si è riuscito per mare si tenterà per terra. Ma l’operazione appare tanto azzardata quanto insensata. Truppe ingenti sbarcano sul litorale nord-est e poi muovono verso sud, incontrando lungo il loro difficile cammino ostacoli immani: catene montagnose, giungla labirintica, paludi, malaria, bestiacce assassine. I soldati del Mikado sono pazzi. Eppure, anche se carichi come muli di armi e bagagli, flagellati dal clima e dalle zanzare, quei diavoli orientali vanno avanti, prima in piedi, poi a carponi, poi strisciando, ma avanzano per una volontà ferrea e fanatica, in nome del loro Imperatore Hirohito. Le avanguardie della spedizione giungono a ottanta chilometri dalla capitale Port Moresby; ce l’hanno quasi fatta, poi sull’uscio dell’obiettivo, ridotti a pelle e ossa e divorati dalla malattia, crollano. I contrattacchi australiani e americani hanno facilmente la meglio su quei disgraziati rottami umani.
L’iniziativa è ora nelle mani degli Alleati. Nell’estremo nord delle isole Aleutine d’Alaska, le forze statunitensi si riprendono il loro territorio con l’ “Operazione granchio di terra” che ha il suo violento epilogo nella battaglia di Attu, con il suo tsunami di baionette. Ma è sicuramente nel Pacifico meridionale che la Storia si compie con maggiore importanza in quel terribile 1943. Due le offensive alleate principali:
La prima: offensiva del generale Douglas MacArthur in Nuova Guinea.
La seconda: offensiva dell’ammiraglio William Halsey nelle isole Salomone Centrali.
Le offensive sono coordinate tra loro perché punte di lancia ambedue puntate verso il cuore della difesa giapponese nell’area, ovvero verso la grande base aeronavale di Rabaul.
Gli ammiragli e generali nipponici sanno che MacArthur è determinatissimo a scacciarli dalla Nuova Guinea con potenti iniziative. Occorre portare rinforzi, in gran numero e alla svelta, per bloccare la strada agli yankee. Lo stato maggiore si muove pertanto ad organizzare un grosso convoglio per trasporto di uomini e materiale, scortato da una flotta muscolosa e protetto dagli aerei delle basi di Lae e Salamaua. Da Rabaul le navi fanno rotta nel Mar di Bismark, nel Pacifico sud-occidentale. Qui sono intercettate, e gli stormi alleati fanno strage. Migliaia sono i marinai e i soldati nipponici che muoiono sprofondando nell’oceano, assieme alla maggior parte dei rifornimenti. Il destino della Nuova Guinea appare segnato. L’alto comando giapponese è traumatizzato. Choc. Interviene il genio Isoroku Yamamoto per tentare di ribaltare una situazione che nella primavera del ’43 per il Sol Levante appare già drammatica, se non tragica. Yamamoto vuole porre un argine alla marea nemica che sta seriamente minacciando la linea difensiva della Sfera di prosperità comune della Grande Asia Orientale e pensa ad una robusta azione aerea. La scelta è quasi obbligata: vista la penuria di uomini e navi nel settore, opta per un attacco dall’aria appoggiandosi agli aeroporti di Rabaul. Yamamoto, che sprovveduto non è, sa bene che una vittoria in tal senso non sarà di certo sufficiente a ribaltare le sorti del conflitto, ma perlomeno si auspica di bloccare l’avanzata nemica per il tempo necessario affinché l’apparato industriale-militare giapponese possa provvedere alle evidenti carenze e si possano così realizzare nuove offensive per riprendere una vigorosa iniziativa. Il Sol Levante ha bisogno di riprendere fiato.
L’ammiraglio racimola tutti gli aerei che riesce. Mette insieme una forza di 350 velivoli pronti al combattimento. Sembra una schiera alquanto temibile, ma in realtà gli stessi alti ufficiali purtroppo sanno bene che:
1) La supremazia tecnologica, in particolar modo per i caccia, non è più loro esclusiva. La seconda guerra mondiale infatti fa sì che i dipartimenti “ricerca e sviluppo” dell’industria di guerra delle parti in lotta lavorino ad un ritmo frenetico, più rapido rispetto ai tempi di pace. Gli americani, grazie al loro immenso potenziale di materie prime, stabilimenti, forza lavoro, corrono ben più in fretta rispetto agli avversarsi del Mikado. I loro aerei sono adesso i migliori e sono di più: qualità e quantità. Sì, la seconda guerra mondiale porta ad una vorticosa accelerazione industriale e tecnica, quello che è all’avanguardia nel ’41 (per esempio i temuti Zero o i bombardieri Mistubishi Betty) nel ’43 è mezzo obsoleto e superato.
2) Molti dei migliori piloti della vecchia generazione sono caduti in combattimento. Le scuole di volo e le prestigiose accademie in patria sfornano aviatori in continuazione, ma è un numero insufficiente. E sempre più spesso vengono chiamati in guerra con una preparazione assolutamente insoddisfacente perché il conflitto è dio crudele, famelico, ingordo, impaziente. Salgono sugli apparecchi che non solo non hanno la capacità per tenere testa al nemico, ma talvolta non sono nemmeno in grado di volare. I giovani piloti del Mikado, senza dubbio ragazzi coraggiosi, muoiono come mosche.
Il 18 aprile 1943 è il giorno fatale del grande ammiraglio Isoroku Yamamoto. L’intelligence americana intercetta i suoi spostamenti verso le isole Salomone centrali. Il dispaccio Top Secret finisce sulla scrivania del segretario di Stato Frank Knox. Il segretario informa il presidente Roosevelt. Il presidente dà l’ok a procedere. Viene interpellato il famoso aviatore Charles Lindbergh per una consulenza urgente.
All’alba del 18 due bombardieri bimotori Mitsubishi decollano da Rabaul. In uno di essi, siede Yamamoto, nell’altro il vice ammiraglio Matome Ugaki. Le guardie del corpo aeree sono sei caccia Zero di scorta. La formazione raggiunge l’isola di Bougainville, sorvola la fitta giungla a 600 metri di quota. Sedici caccia pesanti Lockheed P-38J “Fulmine” americani alle ore 9.35 scovano la preda. Le radio degli apparecchi crepitano:
Guardate! Aerei nemici alle ore 10!
Sugli aerei giapponesi sono rilassati, non si sono accorti di nulla. Poi, quando mancano solo più quindici minuti di volo all’atterraggio, i bombardieri scendono ad appena 60 metri dal suolo, per mimetizzarsi con la vegetazione. Ed è in questo preciso momento in cui i giapponesi si accorgono dell’agguato. Dodici P-38 americani salgono repentini di quota, per attirare le guardie del corpo, mentre altri due scendono con i motori al massimo per addentare i bombardieri. Inseguitori e inseguiti volano così basso e così veloce che accarezzano le cime degli alberi piegando i tronchi. I caccia Zero di scorta capiscono che l’ammiraglio è in serio pericolo e si scagliano contro la minaccia. Ma l’aereo di Yamamoto è nel mirino. Raffiche centrano il motore destro. Le fiamme avvolgono l’intera ala, che dopo pochi istanti si stacca. L’aereo dell’ammiraglio si tuffa nel profondo verde della giungla, e si schianta negli abissi della foresta tropicale. Anche il bombardiere del viceammiraglio Ugaki viene colpito dal fuoco dei cannoncini nemici, e lasciando dietro sé una lunga scia di fumo nero, vira verso l’oceano e precipita in mare. Ugaki perde i sensi nell’impatto. Si risveglia quando la cabina è invasa dall’acqua. Non riuscirà mai a capire e spiegare per quale miracolo sia riuscito a uscire dall’aereo che stava affondando e a raggiungere la superficie e la salvezza. I giapponesi nell’agguato subiscono la perdita di due bombardieri e sei aerei di scorta, ma cosa infinitamente più grave, l’ammiraglio Isoroku Yamamoto è ucciso.
Yamamoto è stato uno dei più grandi strateghi della seconda guerra mondiale, una figura paragonabile per importanza storico-militare ai rivali Nimitz e MacArthur, ma anche agli altri giganti del conflitto come il maresciallo sovietico Zukov, o i tedeschi Rommel, von Manstein, Guderian. Per il Giappone è un evento tragico: il trauma di un Impero. Yamamoto godeva in patria di una fama diffusa, che solo le recenti sconfitte di Midway e Guadalcanal avevano appena scalfito, ma senza che esse potessero mettere seriamente in ombra le sue capacità e la grande stima che il popolo e le forze armate nutrivano per l’ammiraglio. Yamamoto come Icaro: troppo in alto aveva voluto far volare il suo Giappone, inseguendo la gigantesca chimera della vittoria intercontinentale, e il sole gli ha bruciato le ali, facendolo precipitare nella giungla delle Salomone. Quel drammatico giorno di aprile ’43 non vede solo la perdita di un uomo valoroso ma di tutta una speranza, di un’ambizione titanica. La morte dell’ammiraglio simboleggia il declino di un impero; è davvero l’inizio della fine. Una fine di certo lunga e dolorosa: ci vorranno ancora oltre due anni di carneficina e ostinata resistenza contro un nemico invincibile, contro la realtà evidente delle cose, contro la Storia. E in America, naturalmente, si brinda alla morte del primo artefice di Pearl Harbour. Parte della vendetta è compiuta, ma solo nella capitolazione definitiva del nemico essa si potrà definire realizzata.
La guerra va avanti. In Nuova Georgia, nelle Salome centrali, si combatte accanitamente. Il comando alleato appronta una nuova strategia: “il salto della pulce”. Spieghiamo. L’ampiezza geografica del fronte pacifico (che poi è un insieme di fronti vasti migliaia di chilometri) fa sì che eserciti e marine siano dislocati in maniera disomogenea lungo arcipelaghi e porti. I difensori (perché adesso i giapponesi sono sulla difesa) hanno allestito bastioni insulari in punti che ritengono chiave mentre ne hanno lasciati sguarniti altri. Per forza, si deve scegliere con quello di cui si dispone. E allora ecco il gioco del “salto della pulce”: se gli Alleati ritengono un’isola molto ben difesa e fortificata dal nemico, come pulci “saltano” verso la posizione successiva, concentrandosi su un obiettivo più facile. In questo modo, le roccaforti più dure da espugnare rimangono isolate e ci si potrà occupare di loro in un secondo momento, in una netta posizione di forza quando le guarnigioni saranno asfissiate per la mancanza di rifornimenti. Succede così per Bougainville, “saltata” per attaccare la più facile Kolombangara.
La pressione americana esercitata dall’offensiva dell’ammiraglio Halsey fa sì che i giapponesi decidano per l’abbandono delle Salomone centrali spostando le guarnigioni verso le isole più settentrionali dell’arcipelago. La linea difensiva si ritrae e la grande base di Rabaul (che possiamo definire come una Pearl Harbour nipponica) viene pesantemente bombardata il 12 ottobre 1943 con una forza aerea di ben 350 apparecchi. Il 18 si va in replica.
In parallelo alle operazioni di Halsey, si scatena l’offensiva di MacArthur in Nuova Guinea con il prezioso contributo di contingenti australiani e aviatori neozelandesi. I giapponesi rinforzano la guarnigione di Salamaua sulla costa est ritenendo quello l’obiettivo scelto da MacArthur. Ma come accaduto per altri luoghi, anche qui gli Alleati scelgono di “saltare” la roccaforte, allo scopo di inchiodare lì le forti truppe del nemico, isolarle, e poi schiacciarle al momento opportuno. Il 5 settembre, nella zona di Nabzab, 1700 paracadutisti americani atterrano dal cielo per conquistare una pista aerea nemica che subito viene “riciclata” con l’arrivo di aerei da trasporto carichi di soldati d’Australia. A questo punto, il comando nipponico si rende conto troppo tardi che Salamaua non sarebbe stata attaccata frontalmente e decide di sgombrare il presidio assieme a quello più settentrionale di Lae. Migliaia di soldati del Mikado si ritirano in una difficilissima marcia nella foresta verso la costa nord. A Tokyo, nei quartieri generali, l’aria è pesante. Alcuni alti ufficiali, diremo lungimiranti, lanciano un grido d’allarme. Taluni addirittura si spingono ad invocare trattative con gli Alleati. Ma il generale Hideki Tōjō e il suo gruppo di intransigenti fanatici azzittisce il dissenso e il dubbio con la repressione. La Kempeitai e la sua omologa di marina, la Toketai, lavorano spietate. La Kempeitai (Corpo di soldati della legge) nasce nel XIX secolo con funzioni di polizia militare. Negli anni ’30, con l’espansionismo imperiale, i suoi compiti si allargano allo spionaggio e a funzioni di vera e propria polizia politica segreta con caratteristiche, per metodi e capacità operative, non dissimili alla Gestapo nazista o all’NKVD di Stalin. La Kempetai, nelle mani di Tōjō, punisce i disfattisti.
L’ammiraglio Nimitz ragiona sul prossimo colpo. Isole Caroline, Marshall o Gilbert? Dito indice di Nimitz sulle Gilbert! Le ragioni della scelta: l’arcipelago è il più vicino alle linee di comunicazione con l’Australia e a quanto ne sanno gli Alleati sono isole trascurate e scarsamente difese dal nemico rispetto ad avamposti ben più temibili. L’atollo di Tarawa delle Gilbert, in particolare, si presta ad un’operazione anfibia, vista la sua posizione centrale nell’arcipelago. Isole più grandi e geograficamente più rilevanti, vengono “saltate” di proposito: ecco ancora un esempio della strategia alleata del “salto della pulce”; saltare prima verso gli obiettivi più facili e lasciare quelli più tosti da parte, per soffocarli lentamente e poi affondare il coltello quando sono ormai allo stremo per l’assedio aeronavale. Dunque, Tarawa: un atollo triangolare, sembra una punta di lancia al cui interno c’è una laguna di acqua bassa e color turchese. Gli isolotti attorno sono di spiaggia candida e palme da cocco. Un paradiso. Il paradiso diventa l’inferno.
La sanguinosa battaglia di Tarawa
L’obiettivo principale dell’atollo è l’isola di Betio perché c’è un aeroporto, perché è considerata la capitale amministrativa del posto, perché ha la posizione geografica più importante. Il comando delle forze terrestri del quinto corpo anfibio dei marines è affidato al maggior generale Holland M. Smith che sotto di lui ha la ventisettesima divisione dell’esercito del generale Ralph C. Smith e la seconda divisione dei marines del generale Julian C. Smith: l’esercito dei tre Smith. I soldati scherzano:
Tarawa è una faccenda degli Smith!
Gli americani commettono un grave errore di valutazione, dettato dalla scarse informazioni che dispongono sull’apparato difensivo dell’atollo. I giapponesi si stanno preparando da tempo ad accogliere gli yankee.
Nel settembre del 1942 era giunto infatti a Betio il contrammiraglio Saichirō Tomonari, uomo di mare ma che anche a terra sa il fatto suo. Sull’isola, Tomonari, seguendo le linee guida del Piano Yogaki di difesa-imboscata, realizza un capolavoro di ingegneria difensiva che farà scuola. Oltre al ferro e al cemento a disposizione per costruire fortini, bunker, casematte, il contrammiraglio studia a fondo il terreno e dai poveri materiali che esso fornisce ne ricava il meglio. Ordina scavi profondi e li ricopre con tronchi di palme da cocco incrociati e fissati con ramponi di acciaio. Usa poi la sabbia pressata per proteggerli e mimetizzarli, creando così dei bunker e dei tunnel rudimentali ma in grado di mimetizzarsi perfettamente e di attutire cannonate, anche di obici di grosso calibro. Tra casematte e forti seminterrati, Tomonari progetta un fitto sistema di gallerie capace di collegare tutte le postazioni e di fornire passaggi nascosti per contrattacchi e agguati al nemico. Le trincee sono tracciate come un esteso labirinto e invisibili dall’alto. Inoltre, lavora sodo alla geometria balistica: ogni metro quadro dell’isola, ogni più piccolo angolo, viene preso in considerazione affinché sia sotto tiro incrociato di mitragliatrici e mortai. Non si scampa. I carri armati leggeri di cui dispone la guarnigione vengono interrati per farli diventare minibunker. Infine ordina di cingere l’intera isola di Betio con una palizzata di tronchi disposti a pochi metri dalla riva e tenuti assieme con cavi di acciaio. Saichirō Tomonari è un abile progettista del massacro. Dopo la sua eccezionale opera di difesa, Tomonari passa il testimone al collega contrammiraglio Keiji Shibazaki, a cui viene affidato il comando della guarnigione. Con lui 5000 uomini tra genio e gli agguerriti fanti di marina del Terzo Corpo Speciale e Corpo da Sbarco di Sasebo delle forze d’élite della Kaigun Tokubetsu Rikusentai.
Notte del 18 settembre 1943 bombardieri americani martellano Betio. 20 settembre 1943: gli aerei alleati tornano carichi di bombe. Due mesi dopo i bombardamenti riprendono con spietato furore. Dall’alto sembra che il terreno sia stato arato e che le difese nemiche siano state pesantemente danneggiate. I piloti sono certi che il terreno sia stato “lavorato” a sufficienza con tonnellate e tonnellate di bombe. Alle ore 3.30 del 20 novembre i marines prendono posto sui mezzi da sbarco. Molti sono i veterani di Guadalcanal. Davanti a loro il profilo basso dell’isola di Betio, avvolta nel silenzio sotto la luna. Ore 5 spaccate: un razzo rosso sale inaspettato da Betio, come un fuoco d’artificio per una festa tropicale. Si alzano le prime colonne d’acqua delle cannonate giapponesi. Intervengono subito i potenti obici delle corazzate americane al largo per zittire gli avversari. L’isola è sconquassata e avvolta da una nuvola incandescente di sabbia. Maremoto – terremoto – distruzione. Alle 6.30 arrivano le ondate aeree e con metodo, con precisione, con ferocia passano sul suolo di Betio un tremendo rastrello di fuoco. Betio non è più Betio, irriconoscibile. Gli ufficiali ottimisti calcolano un 60% di perdite tra le fila del nemico. Le schiere di amtrak da sbarco dei marines si dirigono a tutta birra verso la spiaggia preceduti da dragamine che hanno il compito di creare varchi tra le fortificazioni marine. Appena a tiro, vengono presi di mira dall’artiglieria giapponese, che lascia sbigottiti gli americani perché nonostante il bombardamento, è ancora attivissima. Sono quasi le nove del mattino, il sole è alto ma l’isola di Betio non si distingue più perché interamente ricoperta da una nube scura di polvere e fumo.
Il primo grave ostacolo è naturale: il fondale di scogli a ridosso della barriera corallina è bassissimo, meno di quanto ci si aspettava. Gli amtrak si incagliano, spingono i motori su di giri per tentare di oltrepassare la barriera, si incastrano tra gli scogli tra le imprecazioni yankee. I giapponesi lo sapevano: concentrano il tiro di tutti i cannoni ora, quando il nemico è più vulnerabile. È un’Arashi, una tempesta. Tanti sono i mezzi anfibi che saltano in aria o che affondano con gli uomini a bordo. Chi non è dilaniato dalle granate, procede nell’uragano con l’acqua fino al collo sotto al tiro violentissimo delle mitragliatrici. I pochi sopravvissuti che oltrepassano la palizzata di tronchi e raggiungono la spiaggia rimangono inchiodati nei crateri della sabbia, non possono alzare la testa. I proiettili schizzano ovunque. La risacca porta cadaveri a dozzine verso il bagnasciuga. Il mare è rosso. Alcuni amtrak arrivano alla palizzata ma non sbarca nessuno: tutti morti. I plotoni che riescono a raggiungere a terra le barricate di palme da cocco per accucciarsi e proteggersi capiscono loro malgrado che quei ripari tali non sono perché vere e proprie trappole battute dalle raffiche giapponesi che arrivano da buchi ben mimetizzati. Cadaveri e feriti a mucchi.
I comandanti americani a bordo delle navi guardano con i cannocchiali il massacro. Hanno le mani nei capelli, c’è il rischio concreto di una tragica disfatta. La situazione supera per gravità tutte le previsioni più pessimistiche. I battaglioni d’assalto intervengono l’uno dopo l’altro, senza che la situazioni migliori.
La prima breccia viene aperta da sei carri armati Sherman che arrivano alla battigia dopo che sono stati fatti sbarcare direttamente sulla barriera corallina e dopo che hanno percorso su di giri centinaia di metri con il mare fino alla torretta, tra le colonne d’acqua delle esplosioni. Riescono a conquistare una manciata di metri verso l’interno e dietro strisciano i marines. Quattro carri vengono distrutti dai giapponesi ma gli ultimi due riescono ad avere la meglio sulle casematte, sparando a bruciapelo con i cannoni e usando i lanciafiamme per arrostire vivi i difensori. Nel tardo pomeriggio, nel pandemonio della battaglia furiosa, gli attaccanti riescono ad aggrapparsi ad una sottile striscia di terra ad un prezzo altissimo. Non sono stati ricacciati in mare ma stentano ad avanzare perché ogni metro verso l’entroterra è conteso in un tiro alla fune di inaudita violenza. Le teste di ponte sono fragilissime.
Tramonto a Tarawa l’imprendibile, panorama di sole rosso pacifico, e nell’Eden l’intensità della lotta non accenna a diminuire. Ma quasi come se le parti in lotta si fossero messe d’accordo tra loro, piano piano il ritmo delle cannonate rallenta, le mitragliate dai bunker giapponesi si fanno più rade, i marines prendono fiato. La coltre di fumo e polvere che per ore è rimasta sollevata, comincia a calare e ricopre di sporcizia le uniformi fradice di sudore e di sangue dei commilitoni. Cala la notte su Betio. Le compagnie scavano rapide le buche. Ricordano bene i veterani di Guadalcanal la passione giapponese per gli attacchi notturni e i banzai urlati nelle tenebre. Attendono nel terrore il contrattacco, ma esso non arriva. Il contrammiraglio Keiji Shibazaki vorrebbe scatenare i suoi fanti di marina ma non può. Infatti le bombe cadute dal cielo e le cannonate dal mare, anche se non hanno intaccato i bunker dove si sono riparate le truppe hanno però danneggiato il sistema di gallerie e trincee, nonché la rete telefonica. Insomma, le comunicazioni tra i reparti sono compromesse. Shibazaki è impossibilitato ad organizzare le forze in modo coordinato. D’ora in poi, i fortini giapponesi dipendono da loro stessi. Non c’è più un unico comando; la difesa, ancora solida, andrà avanti con una costellazione terrestre di avamposti e presidi, autonomi tra loro. In quella notte di paura e paranoia, alcuni piccoli gruppi prendono l’iniziativa attaccando gli americani senza però infliggere danni significativi. C’è però l’eccezione di un commando silenzioso che a nuoto raggiunge un vecchio relitto di una nave trasporto arenatasi non lontano dalla spiaggia, e in quella ruggine, piazzano mitragliatrici in attesa di una nuova alba di sangue. Alcuni comandanti americani, impressionati dalla strenua difesa nemica, consigliano una ritirata generale dall’atollo e di rinviare l’operazione. Invece no, si va avanti, a qualunque costo.
Alle 6.15 ricomincia la danza della morte. Un nuovo battaglione di marines procede appiedato in mare per raggiungere la riva, mentre mortai e mitragliatrici giapponesi ruggiscono dai loro nidi. L’acqua sembra bollire. Il battaglione conta 200 uomini alle 6.30, alle 7.00 ne rimangono 90. Avanti: gli ufficiali e i sergenti spingono gli uomini all’assalto dei fortini che devono essere presi uno ad uno, rischiando la decimazione totale dei reparti. La mattina del 21 novembre ’43 la battaglia infuria tremenda per cinque lunghe ore di fuoco. I giapponesi, trincerati benissimo, oltre al fanatismo, dispongono ancora di buone riserve di munizioni. Sparano come matti, le canne delle armi fumano incandescenti. E quei dannati fortini sembrano essere indistruttibili. Dall’aria, dal mare, dall’artiglieria campale fatta sbarcare con fatica estrema piovono bombe, ma nulla, le costruzioni realizzate da Saichirō Tomonari e comandate da Keiji Shibazaki reggono l’urto continuo, non vengono scalfite. I marines sono inchiodati.
Per diverse ore non conquistano nemmeno un metro. Appena un plotone alza la testa per tentare di sfondare viene immediatamente falciato. Le linee di tiro giapponesi sono studiate con rigorosa e crudele matematica. Di nuovo, si tenta di usare i carri Sherman come arieti, e con incredibile lentezza, un metro alla volta, si avanza tra le difese che devono essere ripulite palmo a palmo. Anche quel giorno su Betio cala una spessa coltre di fumo nero che brucia gli occhi e la gola, non fa vedere né respirare. Il volume di fuoco da ambo le parti è talmente inteso che all’orecchio non si distinguono le singole cannonate o raffiche, ma è un continuo boato di terremoto, un frastuono massiccio senza sosta che copre le urla degli ufficiali e i lamenti dei feriti. In quell’inferno, i marines riescono, seppur triturati dalle mitragliatrici celate in dozzine di nidi fortificati, a prendere la pista aerea e a raggiungere la riva sud. È pomeriggio, ore 16. La lotta non accenna a diminuire ma gli attaccanti capiscono che sono in vantaggio: nelle trincee nemiche e nei bunker rinvengono cataste di cadaveri. Quei giapponesi non li hanno uccisi i marines, ma sono uomini di interi reparti che si sono sparati in bocca, o si sono dilaniati con bombe a mano appoggiate al petto.
Alle 18 giungono altri rinforzi freschi che si gettano subito nella mischia. Il fortino del contrammiraglio Shibazaki è sotto assedio, ma gli americani, spossati da innumerevoli tentativi per avere la meglio su quel caposaldo invincibile, non sanno che pesci pigliare per ridurlo al silenzio. Dentro, lo stato maggiore di Shibazaki, isolato dal resto delle truppe sull’isola, è determinato ad andare fino in fondo. La struttura di cemento regge al cannoneggiamento incessante, e le unità nemiche che si arrischiano in azioni per tentare di aggirare ed espugnare quel gigante interrato, vengono puntualmente massacrate dal tiro incrociato proveniente da buchi mimetizzati e dalle feritoie. Spesso gli attaccanti non capiscono nemmeno da dove diavolo sparino i giapponesi. Però le riserve di munizioni degli assediati stanno finendo. Si combatte ovunque, fino a quando le tenebre di una nuova notte non ricoprono con un pietoso velo nero l’isola del massacro. La situazione è critica per ambedue gli schieramenti. I giapponesi, che non possono di certo aspettare rinforzi e rifornimenti, sono al limite delle forze. Gli americani invece, sono scoraggiati e logorati, perché ogni dannato anfratto di Betio nasconde una minaccia e ogni fortino deve essere preso a costo di alte perdite, e poi il nemico striscia alle spalle, rioccupa le posizioni perdute, si deve ricominciare da capo.
Il 22 novembre si apre con rinnovata furia. I marines provano ad impegnare i bulldozer assieme ai carri armati. È un’idea che funziona: i bulldozer spingono mucchi di sabbia e detriti verso le feritoie dei bunker per tapparle e rendere inoffensive le mitragliatrici. A quel punto, i giapponesi escono all’aria aperta per sortite disperate ma sono tutti imbottiti di piombo e arsi dai lanciafiamme. Nel frattempo, continua l’attacco al grande bunker di Shibazaki, sempre preso di mira dai mortai, che però non lo graffiano nemmeno. Ma tra tutti quei centinaia di proiettili che cadono sulla cupola del fortino ce n’è uno, fortunatissimo (o forse per semplice calcolo di probabilità balistiche), che cambia le cose. Una di quelle granate infatti, manco fosse radiocomandata, si infila in un condotto d’aerazione della fortificazione e esplode all’interno facendo un macello tra gli occupanti. Parte dell’opera è sventrata ma non ancora vinta. I giapponesi tra le rovine sono ancora lì a sparare indemoniati. Allora manipoli di marines si arrampicano sulla cupola e rovesciano taniche di benzina dentro i condotti che trovano. Fanno la doccia ai difensori. Infine, lasciano cadere bombe a mano. Fanno una strage con il fuoco. Oltre duecento giapponesi, tra cui il comandante Shibazaki, sono arrostiti. Ormai il destino della guarnigione è segnato. Ma come altri episodi precedenti e come altri che verranno, l’ostinazione dei difensori ancora in piedi non diminuisce. I giapponesi non sono soldati che alzano le mani.
Il giorno 22, il terzo della battaglia di Tarawa, si conclude con le posizioni americane che ormai sono salde attorno all’aeroporto e nei punti chiave di Betio. I giapponesi osano quello che non avevano tentato nelle due notti precedenti: carica Banzai. È una spallata violenta protetta dal buio, accompagnata da urla rabbiose e spari all’impazzata. Penetrano nelle linee americane spargendo caos e panico. I fanti nipponici spesso fingono di essere colpiti a morte, poi si rialzano per pugnalare i marines che li oltrepassano a piedi oppure si gettano nelle buche facendosi esplodere assieme a chi ci sta dentro. Centinaia sono i morti negli scontri notturni illuminati dalle scie luminose dei proiettili traccianti. Ma è il colpo di coda del grande scontro. L’indomani, verso mezzogiorno, dopo le ultime carneficine, quasi tutto finisce. Ho scritto quasi perché da un buco non esplorato, o da un mucchio di cadaveri in putrefazione, alcuni cecchini isolati continuano la lotta solitaria contro i vincitori. Gli americani perdono un migliaio di uomini a Tarawa, mentre la totale guarnigione giapponese è annientata. I prigionieri sono appena diciassette, caduti nelle mani dei marines perché feriti. Tarawa insegna ad ambo i contendenti che nei prossimi mesi la guerra nel Pacifico sarà lotta sempre più feroce, condotta all’estremo umano possibile.