Myanmar, per gli amici Birmania. Quando i militari hanno cambiato il nome per rappresentare tutti e non solo i Burma, era in buona parte strategia politica. Tutti hanno continuato a chiamarla alla vecchia maniera. In fondo in Birmania cambia tutto ma tutto rimane uguale. Una sorta di Gattopardo con gli occhi nemmeno troppo a mandorla. La Rangoon di un tempo oggi si chiama Yangon. Ci sono ancora le ambasciate ma ufficialmente la capitale è Naypyidaw, 400 km a nord; è più facile sbagliare a scriverla che scovarla tra la vegetazione. Sotto i suoi tetti verde menta la Birmania sembra rimanere eterna. Le sue ciabatte; le sue auto col volante e il senso di marcia a destra (una via di mezzo tra inglesi e resto del mondo motorizzato); le zanzare che decollano e portano il dengue; i risciò che non decollano e portano gente; gli uomini che portano i longyi, la gonna tradizionale burma; tutto è immobile. Eppure qualcosa si muove. Piano piano, ma da sempre. Il Paese, sotto controllo militare del regime pseudo comunista, per molti aspetti è una costola della Cina. Il Tatmadaw (le forze armate) è ovunque, non solo al potere. Basta prendere un bus extraurbano per iniziare a contare i check point. Le divise dei soldati ricordano il clima torrido e un’atmosfera da Marguerite Duras perenne. Tutto sembra un’ossessione. Nelle aree calde della guerriglia nello Stato dello Shan i controlli sono continui, ma anche in aree tranquille la vigilanza è fortissima. Sentirsi pedinati in Birmania non è una paranoia, è abbastanza normale. I Servizi e l’Esercito sono onnipresenti. Discreti ma onnipresenti.
Adesso che si parla di rivolta e repressione armata, il volume delle notizie, vere o false che siano, si alza all’improvviso. Si parla di Myanmar perché in effetti sta succedendo qualcosa ma anche perché ogni tanto uno sfondo che faccia da quinta al bisogno atavico di democrazia serve. Le opinioni pubbliche, anzi l’opinione pubblica occidentale, ha periodicamente bisogno di cattivi che fanno cose. Inevitabilmente di fronte ai cattivi che fanno cose ci sono dei buoni che ne fanno altre. Non c’è da stupirsi. Esiste una tendenziale e attualissima impostazione mediatica afferente al gusto della rivolta in chiave anti-divisa, anti-potere, anti-militari. È una versione molto soft per la verità, del tutto innocua se non fosse per la capacità di diffondere banalità con una certa efficacia. Potremmo dire una versione emaciata e comoda di vecchi anticonformismi, magari dettata più dalla noia e della reclusione per la pandemia Covid che da reali esigenze di contestazione. Per dirla facile, una donna che insulta una fila di uomini in tenuta antisommossa è una buona sintesi del pensiero unico declinato sulle tematiche della libertà e dell’emancipazione di genere; è quello che si vorrebbe prima ancora di quello che succede e che ha un peso reale.
In sostanza, nella penuria generale di notizie che vadano oltre al conteggio dei contaminati e dei vaccini, la Birmania o Myanmar che dir si voglia, offre un’alternativa: chiamiamola variante birmana, che per una volta non fa riferimento ai coronavirus. Parliamo di poca cosa ovviamente, degna al massimo di un servizio nei tg, scritto e impostato senza nemmeno troppe specificazioni. Del resto la Birmania di notizia ne fa poca da sempre. Il celeberrimo film Il ponte sul fiume Kwai, di cui tutti conoscono il gingle fischiettato, è ambientato proprio lì ma lo sanno al massimo una decina di persone al mondo, David Niven compreso. Stessa cosa per eventi tristi più recenti. L’area a sudovest verso la Thailandia è inaccessibile agli stranieri da tempo immemore. La guerra aperta fra esercito regolare e l’Esercito di Liberazione Nazionale Karen è taciuta dai quasi tutti i media ma miete migliaia di vittime da anni. Quella dei Karen è solo la più vistosa tra le rogne etniche della Birmania, dilaniata da rivalse di popoli costipati dalla maggioranza Burma fin dai giorni dell’indipendenza. Il problema dei profughi è una costante in tutta la storia del Paese. È parte della cultura nazionale. Come il belet, l’impasto rossastro principale causa di cancro e scatarri; come la thanaka, la crema gialla usata come rinfrescante dalle donne.I profughi fanno parte di questo angolo di mondo e per mezzo secolo nessuno ne ha parlato. Silenzio sui Karen e silenzio sul popolo Shan perché considerate questioni interne alla nazione. Silenzio anche sui Rohingya, minoranza islamica dello Stato del Rakhine. La sublime sfiga dei Rohingya è essere minoranza al quadrato. Minoranza in contrasto con i buddisti birmani ma minoranza bistrattata anche nel Bangladesh islamico da cui provengono originariamente, a riprova di due fatti universalmente riconosciuti: la religione non di rado è il paravento della politica; la sfiga esiste, non c’è niente da fare. Costretti a fuggire finiscono tra Erode e Pilato, sballottati nell’Oceano Indiano tra Malesia e Indonesia.
Per magia, d’improvviso, il problema riaffiora in concomitanza con l’allarme esodo nel Mediterraneo degli ultimi anni; Myanmar, Indonesia e Malesia sono finite nell’occhio del ciclone per una sempre buona questione profughi. Inizia la danza dei premi Nobel per la pace. Il Dalai Lama accusa Aung San Suu Kyi di non fare abbastanza per difendere la dignità umana e il rispetto delle minoranze. Sembra incredibile: il buddista Dalai Lama, riferimento mondiale dell’indipendentismo tibetano, parla contro i buddisti burma per difendere i musulmani, ma leggendo oltre le righe si capisce la logica anticinese. La Cina è il primo sponsor insieme alla Corea del Nord dei militari al potere in Birmania. Aung San Suu Kyi viceversa in quei giorni ha taciuto. Donna immagine di un velato qualunquismo rosa, ha evitato di esporsi contro il governo di Yangon nell’imbarazzo generale. Proprio lei, incarcerata come Mandela e simbolo della rivalsa democratica su tutte le giunte militari del mondo, ha passato la mano. La politica fa miracoli, niente da dire. Tra uno scandalo e un’omissione, Aung San Suu Kyi è uscita per un bel po’ dalle grazie dei giri benpensanti. Essere un simbolo ha un prezzo, tra contraddizioni interne e ipocrisia collettiva. I profughi Rohingya di cui non interessa a nessuno, finiscono per essere lo strumento di obiettivi politici. Ognuno li cita per qualcosa: ll Dalai Lama, a suo modo, per attaccare i birmani e quindi la loro dante causa Cina; l’Occidente democratico per alzare il volume sugli allarmi umanitari, che spesso fanno comodo in chiave ideologica; la Aung San Suu Kyi, rimasta in silenzio per evitare di irritare i militari un tempo nemici, ma pronti a diventarlo di nuovo in caso di necessità.
Tutto questo alle spalle della gente comune, non solo dei profughi. Alle spalle di quei ritmi lentissimi di un popolo che non conosce i jeans e vive masticando belet, sotto i tetti color menta di eredità coloniale britannica. Tutto questo mentre a Yangon, come ogni sera, tornano le zanzare a squadriglie con la musica di Apocalypse Now. È una delle costanti di Myanmar, una DDR umida del Sudest asiatico che sonnecchia e continua a vivere. Con i suoi ritmi lenti, scossi di tanto in tanto dalla pressione cinese e da qualche morto di troppo. Adesso agli spari e ai morti si fa più caso. Tra un po’ forse non più. Finché Pechino vuole, Yangon e la ridente Naypyidaw rimarranno così.
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