Alla fine Erdogan è stato riconfermato, per la quinta volta nella sua carriera politica (tre in elezioni dirette), al vertice della Repubblica Turca. Questa volta ha preso un rischio, certo – non gli era mai stato necessario un ballottaggio – però certe Nazioni seguono un percorso diverso dal nostro: se cambiano leader è perché sono travolti da una crisi di identità. Il ricambio non è sentito come una sana alternanza, bensì sintomo di disordine e del collasso di un’epoca. Lunghi regni dell’ordine e della stabilità sono la norma, il conflitto interno non un momento di indispensabile progresso, ma una sciagura temporanea cui fa nuovamente posto la restaurazione. Pur cercando di sfuggire alla lusinga dell’immutabilità, maligna tentazione dello storico, è però obbligo intellettuale registrare e recepire.
Riportati all’Europa 2023, i metodi sono assai discutibili: sono circolati molto i video dei soldi distribuiti agli elettori fuori dai seggi – immagini di un simbolismo ripugnante alle nostre latitudini – ma ricordiamo anche le numerose azioni di censura, intimidazione e violenza verso tutto l’apparato mediatico turco, che tra l’altro non si sono placate neppure a vittoria conquistata. Eppure non sono bastati i metodi illiberali, populisti o identitari (anzi…), così come non è bastata l’inflazione galoppante (80% su base annua, a noi ne basta un decimo per sentire colma la misura). Non sono bastate nemmeno le critiche sulla gestione del terremoto e il voto curdo, a dire il vero poco convinto nel votare una coalizione disposta ad accettare elementi ultranazionalisti.
Lo stesso fronte di opposizione non ha mai impostato la campagna elettorale su retoriche incendiarie, dal pericolo dittatura alla demonizzazione dell’avversario i temi ci sarebbero stati eccome. Si è invece limitato a confliggere su temi concreti, come caro vita e corruzione, peraltro sconfinando spesso in territorio avversario: difesa dei confini, ruolo regionale della Turchia e questione greca in particolare. Segno questo di un inaggirabile assenso di fondo della popolazione verso l’azione e i metodi politici del rieletto presidente. La facile retorica dell’uomo forte che non può essere sconfitto da informi amalgami di oppositori tenta dunque le menti di molti; d’altronde, i precedenti di Netanyahu e Orban si inseriscono perfettamente in questa narrativa. Provando a spostare il punto di osservazione, ci si rende conto piuttosto di una situazione estrema; un sistema composto di molteplici elementi che lavorano per conferire forza al tutto. Al vertice un leader carismatico, sostenuto da un consenso plebiscitario che si traduce in una delega pressoché totale sulla base di un rapporto di fiducia sconosciuto agli europei. Un’identità nazionale ampiamente condivisa di cui il leader si fa promotore e garante, base di quest’approvazione. E infine un sistema di potere consolidato e ormai strutturale, che si esplica nello stretto controllo sull’apparato mediatico e nell’allineamento degli apparati statali, anche militari. Quest’ultimo è dettaglio di non poco conto in una Turchia che, nella sua breve storia repubblicana, ha visto ben quattro interventi dell’esercito in nome della laicità (l’ultimo proprio contro Erdogan; fallito, crucialmente, per dilagante reazione popolare, ma anche e soprattutto per l’infiltrazione di stretti alleati di lunga data).
Dietro di sé il rischio scampato; davanti a sé il secolo turco, che lui stesso ha inaugurato prima ancora del ballottaggio, come ineluttabile proclamazione di una missione nazionale a lungo termine della quale si vede leader insostituibile, per ora; ma l’Erdogan stratega guarda molto più in là, ben oltre la sua vita politica. Il progetto, estremamente ambizioso, riesce a scorgere la Turchia del 2123, e la vede potenza in grado di competere alla pari coi giganti, Russia, Cina e Stati Uniti compresi. Annunci, questi, che solleticano e rinvigoriscono un elettorato sempre più consapevole del ruolo imperiale a cui il popolo figlio degli ottomani sente di poter aspirare. Per questo motivo, prosegue (e proseguirà) l’unità nazionale nei confronti della politica estera del neo-rieletto presidente; un altro capitolo che dal punto di vista europeo si fa da sempre fatica a considerare razionale. Il motivo è che il modus operandi di Ankara è l’esatto opposto del canovaccio di diplomazia educata e alleanze fisse preferito da questa parte del continente. La Turchia di Erdogan si muove con un’audacia ai limiti della sovraestensione: truppe e diplomatici anatolici sono attivi in moltissimi teatri, ma la coperta delle risorse è corta; talvolta si tratta di veri e propri bluff, che nessuno però vuole impegnarsi a “vedere”.
È sempre valida la regola che l’unico sconfitto certo è chi rimane imbelle di fronte alle azioni altrui, urge dunque un tentativo di mappare e dare ordine alla strategia turca; esercizio non semplice nemmeno per i funzionari che questo grande gioco lo portano avanti quotidianamente. Per capire subito l’antifona, si parte dalle porte di casa nostra: è notizia ormai consolidata il protagonismo turco in Libia a sostegno del governo internazionalmente riconosciuto. Secondo gli esperti militari, un’azione non certo dirompente nei numeri e nelle risorse, ma, di fronte alla passività italiana e alle contrapposizioni intra-europee (citofonare Palazzo dell’Eliseo, Parigi), è riuscita assieme alla Russia (e, contemporaneamente, in contrapposizione ad essa) a marginalizzare le posizioni italo-francesi.
Il tour prosegue in Siria, per la quale da mesi Recep parla di un nuovo intervento militare – già quattro sono stati portati a termine dal 2018 – per allargare ulteriormente quella zona cuscinetto de facto sotto sovranità turca, e dunque allontanare ulteriormente il raggio d’azione delle milizie curde, spine nel fianco potenzialmente letali per il potere di Ankara nella regione. Se le operazioni siriane possono essere classificate come interventi a difesa della sicurezza nazionale – il conflitto etnico turco-curdo è perenne, figlio della visione totalizzante dei nazionalismi novecenteschi – respiro più ampio, e marcatamente identitario, ha avuto l’appoggio convinto al movimento palestinese (siamo sempre in territorio ex-ottomano), che ci introduce all’altra peculiarità della strategia turca: la molteplicità – a queste latitudini tradotta per lo più con ambiguità, quasi schizofrenia. Infatti, i motivi identitari che avevano portato al suddetto schieramento nel conflitto arabo-israeliano, sono stati improvvisamente messi da parte quando si è presentata la necessità di chiudere le velleità cipriote – altro teatro che vede un coinvolgimento militare turco a lungo termine – di sfruttamento dei giacimenti di gas nei fondali del Mediterraneo orientale. Con questo scopo in mente, ad un accordo con la Libia sulla suddivisione delle sovranità marittime nell’area, ha fatto seguito pochi anni dopo un contro-accordo con Israele, comprensivo di una riconciliazione a tutto tondo (sic!), e poi a stretto giro di posta un terzo trattato, questa volta con l’Egitto.
Manca all’appello ancora l’area balcanica ex-ottomana, in cui la Turchia continua a intrattenere interessi rilevantissimi, soprattutto in Albania e Kosovo, principalmente a mezzo soft power e revisionismo storico. Si dovrebbe citare infine anche la proiezione orientale, che dall’Azerbaijan – di cui protegge fattivamente le rotte petrolifere e gli interessi territoriali contro l’Armenia – si spinge oltre il Mar Caspio fino addirittura al Turkestan orientale; quello che oggi va sotto il nome di Xinjiang, Cina: l’altro capo dell’Eurasia, per darci una dimensione. È notizia di questi giorni l’imminente arrivo di un accordo per il ricongelamento del conflitto per il Nagorno-Karabakh; questo round lo hanno vinto gli azeri, sia sul campo grazie al determinante sostegno turco, che nei tavoli diplomatici (più per demeriti di Mosca a dire il vero, troppo distratta da vicende che non pare necessario ricordare). Ancor più ambizioso è il tentativo di riallacciare i lontani legami storico-linguistici con gli Stan dell’Asia Centrale, attualmente giardino di casa della Russia e frontiera di espansione cinese. Anche qui il richiamo si radica nel passato, riportato alla mente nel presente grazie a film e serie tv a tema storico con protagonisti cavalieri delle steppe.
Potrebbe sembrare comico, ma funziona. Anche il fascino è potere; dopo settant’anni di inclusione nella cultura americana abbiamo l’esperienza necessaria a capirlo. Tralasciamo la vendita di armi in tutto il mondo, dall’Ucraina alla Cina al Myanmar, le rotte africane e gli ulteriori intrecci in Medio Oriente per motivi di spazio e per non confondere ulteriormente le idee. Però il canovaccio dovrebbe essere chiaro.
Se questo giocare su più fronti pare disorientante a livello locale, ancor più sorpresa genera quando viene trasferito nei rapporti con le grandi potenze globali. L’alleato strategico è quello a stelle e strisce, come per noi europei, ma i flirt con Russia e Cina non mancano. Il continuo gioco a prendere e mollare le commesse di armi russe come leva sugli americani migliorare il proprio granaio di equipaggiamenti NATO – di cui si ricorda tra l’altro la testarda e per noi inconsulta opposizione all’ingresso svedese (questione probabilmente in attesa anch’essa di succulenta contropartita da incassare con un ghigno).
E poi il ruolo centrale nei corridoi eurasiatici delle Vie della Seta, sempre nell’ottica del mantra che ogni concessione diventa leva negoziale in un altro tavolo, senza guardare in faccia a nessuno e senza timori reverenziali. Infatti, Ankara sa sempre come tornare all’ovile yankee quando la faccenda si fa seria davvero. Da mettere a registro contabile, alla riga conclusiva, il mega-progetto d sdoppiamento dello Stretto del Bosforo, finalizzato a liberarsi dei lacciuoli della Convenzione di Montreux che lo regola – ovvero a poter gestire più liberamente ancora il permesso o il diniego di passaggio alle navi civili e militari di mezzo globo, che tanti interessi nutre nel caldissimo Mar Nero, o per coloro che tanto desiderosi sarebbero di proiettarsi da esso verso il Mediterraneo.
Erdogan si dimostra ancora il prototipo del leader autoritario nell’epoca delle identità, e del diplomatico cinico e audace nell’età della progressiva anarchia. Trascinatore di folle, con un chiaro progetto in mente per il rilancio della sua comunità. Si dice che spesso il leader fallisca perché il suo popolo non è più disposto a seguirlo, esaurito nelle energie fisiche e nella tempra morale da obiettivi mirabolanti, spesso sprezzanti della realtà; e invece, la Turchia si sta dimostrando comunità preparata a seguire disciplinatamente il suo leader, ed eventualmente a soffrire per realizzarne gli obiettivi di grandezza. Privo di sconvolgimenti interni esiziali, Erdogan può dunque dedicarsi a piene mani alla politica estera. Anche qui, non riesce a non risultare divisivo, persino per gli analisti più tecnici. I suoi meriti si collocano nell’ambito dell’attivismo: sfruttando le distrazioni e l’incuria strategica di molte potenze attorno a lei, la Turchia si è insediata in qualche misura in quasi ogni teatro eurasiatico. Le critiche trovano invece comun denominatore nella sovraestensione, termine geopolitico che sta ad indicare l’improbabilità di riuscire a seguire con la dovuta attenzione un tale dedalo di obiettivi; l’insidiosità di giocare con così tanti interessi, spesso in contrapposizione tra loro. Erdogan si dimostra un abile giocoliere, ma si diletta con sfere di fuoco greco; basta una scintilla al momento sbagliato.
Rischio, quello di continuare a sfidare un turbinio di forze più potenti di quanto riesca a controllare, che gioca anche sul piano economico, a partire dal già citato vortice letale dell’inflazione, con una fatale crisi valutaria che inizia ad intravedersi sullo sfondo, quando le riserve di moneta estera inizieranno a scarseggiare. Il colpaccio dell’accordo col Qatar – che gli assicurerà un vitale afflusso decine di miliardi di dollari pregiati in tempi di fuga dei capitali verso l’estero – non risolve in nessun modo il problema. Trattasi di temporaneo palliativo politico ad una crisi che richiederà inevitabilmente una ricetta economica. Oppure si avrà uno scivolamento verso sentieri simil-pakistani: Paese che ha fatto della sua preziosità in quanto alleato per l’Occidente il viatico sicuro verso continui salvataggi del FMI. Forse l’economia sarà per Erdogan un primo banco di prova di una capacità rara nei leader visionari: scendere a patti con la realtà quando questa proprio non vuole saperne di seguirti. Per il momento continua a sfidarla impunito.