Intervista

"Amerigo Petrucci è stato il miglior Sindaco di Roma". Le memorie di Pietro Giubilo

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Per leggere e analizzare gli attuali e complicati scenari politici che attanagliano il Paese occorre una lettura di taglio differente, che non si limiti semplicemente a ricercare ed unire gli elementi presenti in superficie ma che sia in grado di scavare in profondità per tirar fuori, dai gangli della storia, le ragioni prime che generarono tali fenomeni. Tale esercizio si rende ancor più complicato all’interno di uno scenario come quello italiano in cui son ben visibili le cicatrici causate dalla guerra civile, la cui mancata suturazione si è pesantemente riverberata nella vita politica mancando così l’appuntamento con la pacificazione e con la formazione di una coscienza nazionale. 

Per tentare di ricostruire un quadro analitico, che abbia profondità storica, ci siamo rivolti a Pietro Giubilo ex sindaco di Roma e fine intellettuale. Giubilo, che ha consacrato la sua vita allo studio e all’attività politica vivendo a stretto contatto con molte tra le più importanti vicende storiche che hanno caratterizzato la vita del nostro Paese, ci aiuterà a dipanare la nebbia per rendere lo scenario meno fosco mettendoci in guardia dai rischi in cui si può incorrere se non si inverte l’attuale rotta per procedere al recupero della rappresentanza. 

L’elezione del nuovo Presidente della Repubblica ha mostrato l’inadeguatezza del Parlamento e dei relativi rischi che ciò pone per la democrazia. Dove affondano le radici di tale crisi? 

In questi anni si è avuta una modifica di fatto della Costituzione. Un grande costituzionalista che collaborò con Dossetti e che era uno dei riferimenti fondamentali del pensiero democratico cristiano, sosteneva che la Costituzione materiale in Italia fossero i partiti. Ciò soprattutto con riferimento alla lettera della Carta che stabiliva una democrazia parlamentare, e quindi con una regola elettorale proporzionale, dove il ruolo dei partiti realizzava l’azione politica fondandosi sui confronti e sugli accordi. Oggi, nel chiedere la riforma del sistema elettorale proporzionale non si comprende come questo sistema, che ha caratterizzato la Repubblica italiana nei primi decenni, allora fosse innervato e animato dal disegno politico, mentre ora si paleserebbe come un mero allargamento del potere.

Esso, infatti, era in funzione di un progetto che vedeva i partiti, ed in particolare la Democrazia Cristiana che era il partito guida, costruire quell’allargamento del consenso e della base sociale del sistema democratico che passava attraverso la collaborazione e l’incontro dei partiti, dal centrismo al centrosinistra, fino, a motivo dei rischi del terrorismo, alla cosiddetta terza fase, cioè all’incontro con il Pci,  al fine di realizzare un compimento della democrazia italiana. Tuttavia, anche in questa visione di importanza e di animazione del sistema proporzionale, De Gasperi tentò la correzione maggioritaria nel 1953, mentre Moro vedeva l’accordo con il Partito Comunista non come condizione permanente, come interpreta erroneamente la cultura politica di sinistra ( compromesso storico), ma  in funzione di una democrazia dell’alternanza. Essendo venuta meno tale visione della Costituzione materiale, per come diceva Mortati, oggi i partiti non sono più in grado, su una vicenda decisiva come l’elezione del Presidente della Repubblica, né di fare un grande accordo né di fare un grande confronto.

Storicamente ci fu un grande accordo nel 1985 sull’elezione di Cossiga, mentre si era avuto un grande confronto, ventitré anni prima, tra Segni e Saragat. Segni rappresentava il moderatismo democristiano, mentre Saragat il socialismo democratico. In quell’epoca Moro, che si apprestava a realizzare l’apertura a sinistra, desiderava che al vertice dello Stato ci fosse Segni, ciò al fine di garantire i ceti moderati. Oggi, purtroppo, i partiti non sono più in grado di sviluppare disegni di questo tipo e questo rappresenta un pesante problema istituzionale. 

Dalle sue parole emerge chiaramente che siamo di fronte ad una evaporazione dei partiti che ha generato un vuoto da colmare. Su cosa occorrerebbe intervenire?

Prima di entrare nel vivo della domanda vorrei fare un passo indietro e ritornare sull’elezione del Presidente della Repubblica. Come da consuetudine, in ogni appuntamento di questo tipo, oltre all’aspetto istituzionale dell’elezione del Presidente della Repubblica si innesta un disegno politico. Il disegno politico di questa vicenda è stato l’obbiettivo, soprattutto portato avanti da Renzi e condiviso da Letta, di spaccare il centro destra con la candidatura di Pier Ferdinando Casini. Non dimentichiamo, infatti, che Renzi è il Segretario del PD che ha offerto a Casini un seggio nel fortilizio bolognese.

Nessuno ha fatto caso che accanto ai nomi di carattere istituzionale, o come dire “di alto profilo”, l’unico nome politico era quello dell’ex segretario dell’Udc. Il drappello dei centristi animato da Lupi ha convinto Forza Italia a candidare Casini, già proposto da Renzi, provocando con ciò la spaccatura del centrodestra. Sullo sfondo di tale operazione già si intravede l’idea di realizzare il sistema proporzionale. Pertanto, la questione politica che affronterà in questo anno il Governo Draghi, oltre alla problematica della pandemia e al PNRR, sarà la riforma della legge elettorale in senso proporzionale. 

Si intende superare il bipolarismo che, però, ha avuto grandi difficoltà perché non è mai riuscito a realizzare coalizioni stabili. Per quali motivi?

Ci sono state fasi di positiva governabilità ed altre di instabilità. Per la verità ha pesato sul bipolarismo italiano la politica del Pci, Pds, Pd che non ha mai accettato la svolta politica che impresse Berlusconi nel 1994. La sinistra ha sempre portato avanti una sorta di conflitto politico, pensando di  vivere in quella condizione di 8 settembre permanente che, invece, nel lontano 1953, la rivista Terza Generazione dei giovani democristiani, tra i quali Gianni Baget, chiedeva di superare per realizzare una vera pacificazione e coscienza nazionale. Pensi che Baldo Scassellati, che divenne poi Direttore della Fondazione Agnelli e che ho conosciuto personalmente più tardi, scriveva allora: “Non possiamo rifiutare nulla della storia d’Italia, né del Risorgimento, né del più antico passato, né dell’era giolittiana, né dell’interventismo, né del primo dopoguerra, né del fascismo, della guerra e dell’immediato ieri”.

La sinistra  ha combattuto con ferocia il riformismo craxiano così come ha ritenuto illegittimo l’arrivo di Berlusconi. Il bipolarismo è stato minato da questa contrapposizione politica che ha sempre respinto l’idea di costruire una coscienza nazionale unitaria, senza la quale è impossibile realizzare una vera stabilità politica. Violante fece qualche passo, ma il partito lasciò cadere rispolverando continuamente e spesso pretestuosamente, l’antifascismo. A ciò si sono uniti i cattolici democratici. Giuseppe Dossetti definiva nel 1994 Berlusconi come un “pericolo autoritario”, mentre il Cavaliere, invece, ad Onna nel 2009,  indicò la necessità di costruire  “un sentimento nazionale unitario” , in un discorso in cui si ritrova la mano di  Baget. Nel respingere l’appello di Berlusconi, non a caso, si distinse Dario Franceschini.  

È un’analisi che spiega molte vicende, ma riprendiamo il filo sulla crisi dei partiti. Cosa non la convince delle attuali forze politiche?

Tornando volentieri al quesito da lei posto, ritengo che se i partiti sono evaporati, evidentemente c’è un problema di rappresentanza. È importante sottolineare che ci sono due aspetti da considerare circa la rappresentanza: il primo è, senz’altro, la capacità di decidere e di realizzare quegli accordi necessari a portare avanti la governabilità; mentre il secondo risiede nella capacità di rappresentare la società civile. Quest’ultimo, in particolare, mi richiama al fatto che i partiti, un tempo, erano scuola di rappresentanza e permettevano che la stessa sbocciasse nel cuore della società civile. Ma la società civile va vissuta direttamente per capirne le questioni e non letta nello specchio dei media. Voglio portare un esempio che possa rendere più chiaro il mio pensiero. A Roma, soprattutto nelle periferie, vi è un alto tasso di astensionismo. Quindi, constatiamo che i cittadini maggiormente bisognosi sono quelli che meno ricorrono alla rappresentanza comunale. Ciò significa che hanno perso la fiducia nel rapporto con le forze politiche dal momento che queste ultime ormai non colgono ciò che fondamentalmente richiede la condizione di queste parti della società romana. Dunque, non vi è dubbio che il problema prioritario è quello del recupero della rappresentanza, il cui limite attuale determina lo scadimento della governabilità.

La sua storia è caratterizzata da un importante percorso politico e culturale. Potrebbe raccontarci dove ha avuto inizio e quali sono state le evoluzioni, ciò anche al fine di comprendere la realtà dei partiti e come si cresceva al loro interno? 

Io provengo dalle esperienze delle associazioni giovanili europeiste che negli anni Sessanta gravitavano nell’orbita del mondo della destra marcata ed erano caratterizzate da un attivismo piuttosto deciso, e da una ricerca di carattere culturale e politico. Alla vigilia degli anni Settanta, insieme ad un gruppo ristretto, ritenemmo che fossimo di fronte ad una rivoluzione laicista. A nostro avviso la destra – ed in particolare il Movimento Sociale Italiano che era quello sentivamo più vicino – utilizzava uno schematismo che reputavamo inadeguato perché ragionava secondo logiche scontate, partito reale e partito legaledestra e social-comunisti, con un approccio piuttosto superficiale. La vera questione di quegli anni fu, appunto, l’emergere di un’evidente non linea rivoluzionaria del Partito Comunista, confortati dalla lettura che ne faceva Amadeo Bordiga, mentre il maggior pericolo rivoluzionario che veniva innanzi era quello laicista, da noi definito scalfarista in quanto l’Espresso di Eugenio Scalfari aveva una forte diffusione di opinione, promuovendo battaglie laiciste. Questa linea non portava un attacco ai cattolici in quanto fede, ma ai cattolici sui presupposti sociali, e quindi sulla società civile, legati alla legge naturale.

Entrammo nella DC con l’idea che quella fosse la trincea nella quale compiere il nostro impegno sulla battaglia decisiva per l’Italia anche perché all’interno del partito c’erano intellettuali che portavano avanti le nostre stesse idee, penso ad Augusto del Noce, ma anche a Sergio Cotta. Ci avvicinammo a Gianni Baget Bozzo che, tuttavia, aveva rotto definitivamente con il partito democristiano. Purtroppo sbagliammo i tempi dal momento che la svolta conciliare fu, di fatto, gestita dalla cultura cattolico democratica che già allora tendeva a separare i cattolici del sociale dai cattolici dell’etica naturale. Sulla base della prevalenza dei cattolici del sociale si poteva stabilire una convivenza con le posizioni non attente alla tutela dei principi e dei valori di carattere etico sui quali noi scommettevamo. Scoppola teorizzava che dall’incontro con il popolo comunista i cattolici si sarebbero rigenerati. Pertanto, la nostra idea originaria non fu più perseguibile e l’evoluzione del tenore delle nostre battaglie fu di carattere minore tendenti, tuttavia, a realizzare una democrazia più forte con un sistema di rappresentanza e di governabilità migliore. Fu così che il mio percorso proseguì all’interno del laboratorio politico di Europa 70, un nutrito gruppi di parlamentari dc, quarantenni, che proponevano sin dal 1968 l’elezione diretta del Presidente della Repubblica e il sistema elettorale maggioritario. 

Da “Europa 70” alla corrente di Vittorio Sbardella: quale fu il filo conduttore?

Riscontrando che i grandi obbiettivi prefissati erano difficilmente percorribili, tra l’altro la riforma presidenzialista non passava, dovemmo restringere gli orizzonti, decidendo così nel 1976 di misurarci su Roma. In città la figura che in quel momento era la più valida sia sotto il profilo amministrativo che politico, in quanto dotata di visione della rappresentanza e della considerazione dei temi, era quella di Amerigo Petrucci. Petrucci è stato il miglior Sindaco di Roma e ha il merito di aver fatto approvare un piano regolatore nel 1962 che è straordinariamente valido, anche se non applicato successivamente per la resistenza che spesso Roma oppone al cambiamento.  Tra le persone più vicine ad Amerigo Petrucci vi era Vittorio Sbardella con il quale ci eravamo già conosciuti a Nuova Repubblica, il movimento politico presidenzialista di Pacciardi, partecipando al gruppo universitario Primula Goliardica.

Con Petrucci e Sbardella si provò a mettere in campo un nuovo tentativo finalizzato a realizzare un disegno politico vasto ed ambizioso. Purtroppo nel 1983 Petrucci venne a mancare e toccò a Sbardella portare avanti quella strategia rafforzata dal legame che lui stesso aveva creato con Comunione e Liberazione. Vittorio Sbardella aveva un’ottima capacità organizzativa e sapeva muoversi molto bene all’interno di un partito che ormai era di difficile gestione, frazionato tra correnti e sotto correnti. Inoltre, era capace di prevedere le mosse e le iniziative altrui, riuscendo così a prevenire e a vincere le battaglie e ad intuire i rapporti di forza e di potere.

In quel periodo storico Vittorio aveva visto in “Comunione e Liberazione” quella capacità di avere un pensiero organico e di alimentare le energie di una classe giovanile formata da persone attente e preparate, capaci di operare nella realtà, che avrebbero potuto rianimare un partito come la DC che piano piano si stava adagiando nel potere. Sostenemmo con forza la pubblicazione de Il Sabato al quale collaboravano oltre a Augusto Del Noce, anche Giano Accame, Antonio Socci con l’influente ispirazione di Maurizio Giraldi, un intellettuale poco conosciuto ma di grande intelligenza politica. In quel momento, tuttavia, il moderatismo del partito dc si piegava all’attenzione al potere invece che a quella di riproporre i grandi temi culturali e della coscienza nazionale. L’idea di Vittorio era anche quella di fare del Lazio la prova generale per un partito diverso. Ma la sua principale ambizione era di giungere a Segretario organizzativo al fine di portare la DC, o quantomeno una parte di essa, a cambiare pelle in modo da realizzare un Partito che si misurasse sui temi e sulle questioni che invece ormai subiva, come poi si vide nelle vicende di Tangentopoli che la annichilirono. 

All’interno di questo progetto decisi di intraprendere il percorso che comunemente dovrebbe fare chi vuole impegnarsi politicamente, ovvero iniziare l’impegno politico dai luoghi ove “abita”, dalla sua comunità, sentirsi attratto dalla realtà in cui vive; così nel 1985 mi presentai in consiglio comunale, venni eletto nella lista della Democrazia Cristiana e subito entrai in giunta divenendo Assessore ai lavori pubblici. Tuttavia, la guida dell’allora Sindaco Signorello era molto prudente, per cui ritenni di fare il Segretario del Partito romano. Successivamente, una serie di eventi misero fuori gioco Signorello e a quel punto, una volta giunto alla segreteria, mi si indicò anche come candidato Sindaco. Così venni eletto nel 1988 come Sindaco di Roma, all’interno dello stesso mandato amministrativo che mi aveva visto consigliere, trovandomi a confronto con la Città. 

Qual è la bellezza e l’importanza di essere Sindaco di una città come Roma, unica nel suo genere a livello globale, nonché sede del cattolicesimo? 

Alcuni sindaci che ho conosciuto, e che successivamente hanno avuto sviluppi importanti sia in Parlamento che al Governo, hanno sempre rimpianto la carica di Sindaco. Questo perché Roma, che non è solo una città ma anche una idea, possiede un fascino particolare per via della sua universalità. È scritto nella sua storia e nel suo destino. Paolo di Tarso sottoposto a processo in Palestina dice: Civis Romanus sum, e così chiede di essere processato a Roma. Venendo a Roma fa in modo che il cristianesimo diventi una religione universale. 

“L’ulivo che si innesta sull’olivastro” per citare il compianto Don Ennio Innocenti …

Certamente … Inoltre, abbiamo il Diritto Romano che più sente la vicinanza al Diritto Naturale e quello che poi si diffonde e forma il sistema giuridico occidentale. Nessuna città come Roma presenta ad oggi – stratificate ma visibili – tutte le fasi storiche: romana, medievale, rinascimentale, risorgimentale e fascista. Roma è una città di città che si compenetrano l’un l’altra, ma si rispettano. Vi è un’anima universale che si mantiene e unisce queste diverse città che sono sempre visibili. Visitando Roma vivi tutti i tempi storici della città. Non è un caso che pittori, poeti e scrittori del 1700 e 1800 eleggessero Roma come loro sede preferita; scrivevano che era  come sentirsi a casa propria. Non dimentichiamo, inoltre, che nel 1957 è stata anche scelta come sede per la firma dei primi trattati per l’Europa.  

In veste di Sindaco mi trovai nella necessità di utilizzare il tempo per un’idea accettabile, ovvero capire come si poteva caratterizzare la Roma democristiana. A quel punto cercai di attuare l’idea strategica del piano regolatore del ’62, che prevedeva la modernizzazione della città attraverso lo spostamento della direzionalità nella zona est, al di fuori del centro storico. Per far ciò incaricai per realizzare il “progetto direttore” un gruppo di lavoro all’interno del quale vi erano figure del calibro di Sabino Cassese per la parte amministrativa, Gabriele Scimemi per la parte strutturale, mentre il disegno venne affidato all’architetto e urbanista giapponese Kenzō Tange, uno dei più grandi del Novecento, in quanto la sua idea di modernizzazione era di comprensione e di adattamento al carattere della città. Kenzō Tange, per intenderci, oltre ad aver ricostruito Hiroshima, ha realizzato la stupenda Chiesa di Santa Maria a Tokyo dove si svolse il suo funerale, in quanto lui era di fede cattolica. Quando lo incontrai per affidargli l’incarico gli dissi: abbiamo pensato a lei perché riteniamo che sappia comprendere che a Roma c’è una forte tradizione da interpretare e di cui tenere conto. Infatti, nei disegni da lui realizzati, i centri direzionali, posti ad est della Città, guardavano al Campidoglio e a San Pietro. 

E che ne fu poi del progetto?

Purtroppo venne archiviato in un cassetto dalle giunte successive. 

Durante il suo percorso ha avuto la fortuna di lavorare a stretto contatto con i maggiori esponenti della Prima Repubblica, quali erano le principali caratteristiche di quella classe politica?

Era una classe politica capace di grande cinismo, ma anche di realizzare grandissime cose, nonché di acquisire degli autonomi spazi di valutazione e assumere iniziativa politica. Penso alla capacità di Aldo Moro che da Ministro degli Esteri crea alla conferenza di Helsinki del 1974 le condizioni per la distensione, oppure il famoso lodo con la Palestina. Per meglio comprendere quanto sto dicendo vi è un aneddoto che mi piace raccontare e che, letto tra le righe, la dice lunga sugli spazi di autonomia e sulla libertà politica e di pensiero di cui quelle figure erano capaci. 

Prego…

Eravamo nell’aprile del 1986. Andreotti, allora ministro degli Esteri, mi aveva fissato un appuntamento nel quale gli avrei dovuto illustrare alcune importanti iniziative che, come Assessore ai lavori pubblici, intendevo attuare. Mi sarei dovuto recare nel suo ufficio in piazza San Lorenzo in Lucina, la mattina presto, però, alle 6.00, mi arrivò una sua telefonata per spostare l’appuntamento, che avvenne il giorno successivo. Quando mi passarono la comunicazione riconobbi subito la sua inconfondibile voce che mi disse: “caro Giubilo rimandiamo l’appuntamento a domani, oggi ho Consiglio dei Ministri, perché questa notte gli americani sono intervenuti come bufali contro Gheddafi….”

Quali sono le raccomandazioni che si sente di dare alla politica romana e nazionale?

Per quanto riguarda Roma, inviterei il centrodestra, certamente, a riaprire la partita dal momento che il risultato elettorale dell’ottobre scorso mostra che bisogna recuperare un forte programma di cambiamento che includa le periferie. Tale cambiamento era stato chiesto dai romani alla giunta Raggi, ma la squadra di cui ha potuto disporre, unitamente agli interessi pesantissimi che gravano sulla città e all’inadeguatezza della struttura amministrativa del comune, non ha consentito di realizzare tutto questo. L’operazione Gualtieri potremmo definirla conservatrice dal momento che il piano regolatore sul quale si muove è stata la ratifica del patto urbanistico tra il mondo produttivo e le giunte di sinistra. Un concetto di urbanistica contrattata, priva di un’idea strategica e di cambiamento, per il quale il disegno della città lo fanno gli interessi fondiari. 

L’errore del centro-destra è stato quello di attaccare la giunta Raggi e non chiarire che bisognava impedire il ritorno di quelli che avevano tradito le periferie e cancellato la capacità dell’amministrazione comunale di guidare il cambiamento nella città. Mentre a livello più generale occorre senz’altro recuperare la rappresentanza e la governabilità. Oggi le sfide della globalizzazione sono tali che non ci possiamo far trovare con una classe politica inadeguata e soprattutto con forze politiche non rappresentative. La loro capacità e autonomia è direttamente proporzionale alla capacità di rappresentare, di capire e di essere espressione delle comunità.

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