«L’aborto presenta una profonda questione morale. La Costituzione non vieta ai cittadini di ogni Stato di regolamentarlo o vietarlo, non vi fa alcun riferimento e nessun diritto del genere è implicitamente protetto da alcuna disposizione costituzionale. La conclusione inevitabile è che un diritto all’aborto non è profondamente radicato nella storia e nelle tradizioni della nazione».
Samuel Alito, giudice della Corte Suprema
Così il giudice Samuel Alito della Corte Suprema nel parere redatto a sostegno della sentenza Dobbs v Kackson Women’s Health Organisation che, togliendo ogni garanzia a livello federale, ha di fatto eliminato il diritto all’aborto. Di fatto, perché per essere precisi non lo ha abolito ma piuttosto de-federalizzato. Lo ha (ri)messo in mano, cioè, alla legislazione dei 50 stati americani, non più sotto la copertura omogenea in cui lo aveva posto nel 1973 un’altra sentenza della Corte Suprema, la cosiddetta Roe v. Wade, capace di mettere una volta di più, l’una di fronte all’altra, due visioni opposte di America, rappresentate allora dall’avvocato Henry Menasco Wade, già famoso per essere stato protagonista del processo contro l’assassino del Presidente Kennedy Lee Harvey Oswald, e da una ragazza, Jane Roe (Norma McCorvey) pronta a diventare il simbolo di tutte le donne che sostenevano la libertà di scelta su un tema personale e delicato come quello dell’aborto, e a sua volta protagonista poi di una doppia capriola: affermando prima di avere abbracciato la fede cristiana protestante e di sostenere il movimento pro-life, quindi confessando poco prima di morire (nel 2017), in un documentario televisivo, che il suo voltafaccia non era stato sincero, in quanto pagata da un gruppo di evangelici anti-abortisti per mentire.
Quella sentenza stabilì che l’elenco dei diritti individuali può essere integrata da altri diritti non specificamente menzionati nella Costituzione. Permettendo l’aborto esclusivamente in caso di pericolo di vita della donna, secondo la Corte, si violava il diritto alla privacy (la libera scelta) garantito dal XIV emendamento della Costituzione. Una sentenza storica sull’onda delle battaglie per i diritti civili e contro la guerra in Vietnam, perfetto suggello alle pulsioni libertarie degli anni Sessanta, arrivata dopo che undici stati avevano già allentato il divieto totale all’aborto per consentire eccezioni occasionali, e dopo che la capitale Washington e cinque Stati – Alaska, California, Hawaii, New York e Washington – avevano già legalizzato l’aborto sia per i propri residenti che per tutte le donne abbastanza ricche da poter raggiungere quegli Stati. Una sentenza, la Roe v. Wade, paragonabile per certi versi a quella sul fine vita emessa dalla nostra Corte costituzionale, che invitava il Congresso a legiferare con una legge federale. Il problema è che, come successo col nostro parlamento, nessuna legge è mai arrivata…
L’America pro-choice e quella pro-life. Un Paese tornato ora a esibire platealmente le proprie difficoltà e contraddizioni, nel modo più netto e canonico, anche geograficamente: il midwest e il nordest liberal da una parte, diversi Stati del centro e il sud conservatore dall’altra. America contro America, insomma. Quarantanove anni dopo, come notato su l’Atlantic da un David Frum pronto a evocare addirittura il clima del proibizionismo, l’una di fronte all’altra si ritrovano due idee di Paese che rimandano alla distanza tra una western più chiusa, “regionalista” e una più aperta e filoeuropea. Sono le classiche due visioni che nei secoli si sono confrontate e date battaglia anche in seno alla stessa Corte suprema, la cui giurisdizione è tradizionalmente relativa per lo più ad impugnazioni di decisioni provenienti dalle corti inferiori. Un’istituzione dalla storia costellata da un continuo, incessante ‘swinging’ alla ricerca di un difficile e spesso congiunturale equilibrio: tra singoli Stati e governo federale, in un conflitto caratterizzato dalla storica sfiducia verso un’autorità centralizzata (il famoso deep state, e non è certo un caso se i due settori economicamente rilevanti, politica fiscale e regolamentazione degli scambi commerciali, siano sempre rimasti di competenza dei singoli stati); tra Stati del nord e Stati del sud, assestatisi dopo la guerra civile su una governance nazionale costruita almeno fino agli anni Sessanta del secolo scorso su un tacito patto riassumibile grosso modo così: voi votate le nostre leggi a Washington e noi in cambio chiudiamo un occhio o anche due sulla segregazione razziale dalle vostre parti (il famoso “uguali ma separati”). Un equilibrio rivelatosi sempre complesso che aiuta a capire perché nel 1932 Louis Brandeis, uno dei più importanti giudici della storia della Corte, nominato da Wilson 1916 (primo ebreo e radical) potesse dichiarare perché «nella maggior parte dei casi, è più importante che una legge sia stabilita, piuttosto che stabilita nella maniera giusta». Stare decisis è la formula che in latino significa «rimanere su quanto deciso», e che prevede che una sentenza già presa, costituendo un precedente, non debba essere ribaltata a meno di casi di eccezionale gravità. Proprio per non apparire un organo che cambi l’interpretazione della Costituzione a seconda della maggioranza.
Come la storia dei papi rispetto alla storia dell’Europa, così la storia della Corte rispetto a quella americana: termometro pressoché infallibile del clima sociale e delle oscillazioni politiche in atto, strumento scandito inevitabilmente dal caso (la morte di uno dei nove giudici a vita che la compongono, tutti di nomina presidenziale approvata dal Congresso) e insieme dalle opportunità del momento, fin dai tempi di John Adams (l’unico presidente come Trump che decise di non presenziare all’insediamento del suo successore, Jefferson nel suo caso), colui che ufficialmente in carica fino alla mezzanotte del 3 marzo 1801, provvide a stilare un elenco di nomine da far firmare dal Segretario di Stato John Marshall, tra le quali quella dello stesso Marshall, federalista, alla Corte Suprema, il più alto organismo statunitense -lo ricordiamo- che ha il compito di garantire alla popolazione che ogni legge rispetti regole e diritti sanciti dalla Costituzione.
«La convinzione che la maggior parte degli americani fosse politicamente incorreggibile –ultranazionalista in politica estera, razzista nel rapporto con i neri e con altre minoranze, autoritaria nei confronti di donne e bambini- contribuisce a spiegare perché i liberali facessero tanto affidamento sui tribunali e sulla burocrazia federale per preparare riforme che, se apertamente discusse, potevano non ottenere l’appoggio popolare. Le grandi vittorie liberali -abolizione della segregazione, azione per l’integrazione, redistribuzione dei collegi elettorali, legalizzazione dell’aborto- vennero vinte per lo più nei tribunali, e non al Congresso, nelle legislature degli Stati o nei sondaggi d’opinione».
Christopher Lasch, Il paradiso in terra. Il progresso e la sua critica
Così Christopher Lasch ne Il paradiso in terra. Il progresso e la sua critica, ma, allo stesso tempo, si potrebbe ricordare il ruolo spesso assunto dalla Corte Suprema per affermare decisioni o leggi o nomine altamente impopolari, come quando nel 1842 stabilì che la responsabilità degli incidenti sul lavoro doveva ricadere esclusivamente sui lavoratori stessi o quando, tra il 1887 e il 1905, le società ferroviarie vinsero quindici delle sedici cause intentate. Per non parlare dell’epoca del New Deal, quando andò in scena il sordo, pesante conflitto con il presidente “accentratore” Roosevelt…
Non c’è dubbio che dalla metà degli anni Settanta la lotta contro l’aborto abbia assunto via via connotazioni sempre più politiche. Nel 1976, il Partito repubblicano la inserì nel proprio programma elettorale. Durante gli Ottanta, Ronald Reagan vinse le elezioni anche grazie al movimento anti-aborto. Ma è alla fine degli anni Novanta, con la prevalenza neocon alla corte di George W. Bush che organizzazioni conservatrici come la Federalist Society riuscirono a influenzare pesantemente la scelta dei giudici della Corte suprema e dei tribunali federali. Vari sono stati in questi decenni i tentativi di limitare o rovesciare la liberalizzazione del ricorso all’aborto, in un quadro politico che annunciò chiaramente un cambio di prospettiva già nel 2016, quando al troppo debole presidente democratico Obama non riuscì sostituire lo scomparso Antony Scalia e che conobbe poi un decisivo rovesciamento di paradigma con la morte nel settembre 2020 di Ruth Bader Ginsburg, sostituita dopo poco con Coney Barrett da un Trump ritrovatosi -il caso, appunto, ma a anche i numeri della politica- a nominare, in un solo mandato, ben tre giudici (Gorsuch, Kavanaugh e appunto la Barrett, aggiuntisi ai conservatori Thomas e Alito), riuscito oltretutto a riempire il 28 per cento dei posti vacanti dei vari giudici federali e il 30 per cento dei giudici di corte d’appello, creando così un motore legislativo a forte trazione conservatrice.
«Una comunità sana deve ingaggiare dibattiti su questioni che vedono i cittadini ragionevoli in disaccordo», sosteneva la democratica Ginsburg. Esattamente quello che non è successo negli ultimi anni, quando il dibattito tra le due Americhe ha subito la sua più violenta esasperazione, fino al clamoroso assalto al Capitol tornato in questi giorni di violenta attualità, sostenuto vedremo come e quanto da un Trump il cui senso dell’eccesso e della dismisura si è dimostrato pari solo all’esilità di un partito democratico a trazione Obama che dopo la catastrofe Hillary Clinton è riuscito solo per il rotto della cuffia a far eleggere il più anziano presidente della storia americana.
Secondo gli attuali componenti della Corte, la sentenza del 1973 doveva essere «ribaltata» perché «clamorosamente sbagliata sin dall’inizio», fondata su «un’argomentazione eccezionalmente debole che ha avuto conseguenze negative», con il risultato di «infiammare il dibattito ed aumentare le divisioni». A ben vedere, la Dobbs (anticipata un paio di mesi fa da un’indiscrezione giornalistica) non costituisce un caso di “ribaltamento” senza precedenti – già nel 1952 in contrasto con una sentenza del 1948 la Corte suprema stabilì l’obbligatorietà per le scuole pubbliche dell’istruzione religiosa, e successe la stessa cosa anche nel maggio del 1954, quando diede ragione alla NAACP, riconoscendo l’incostituzionalità della segregazione razziale nelle scuole pubbliche – ma certo è che con questa sentenza la Corte ha fatto chiaramente intendere di essere pronta a ribaltare altre sentenze considerate finora inattaccabili. Il giudice nero Clarence Thomas, uno dei più conservatori dei nove, ha scritto che potrebbero essere ripresi in esame privacy, diritto di accesso alla contraccezione e diritto di matrimonio per le coppie omosessuali; tutti argomenti non a caso affrontati in sentenze che come la Roe v. Wade si basano sul quattordicesimo emendamento della Costituzione. Inoltre, in aperto contrasto con Brandeis, il giudice Alito ha scritto che, quando un giudice ritiene che una sentenza precedente sia stata un errore, è suo compito correggerla, indipendentemente dalla regola dello stare decisis, in barba alla giurisprudenza acquisita e soprattutto a quell’opinione pubblica che per padri fondatori come Jefferson o Abraham Lincoln era “tutto”. «La corte deriva legittimità non dall’assecondare l’opinione pubblica ma dal fare la cosa giusta», ha dichiarato Alito, vessillifero di un non meglio precisato e inquietante rispetto per un diritto «profondamente radicato nella nostra storia e nelle nostre tradizioni».
Affermazione, quest’ultima, che rende bene l’idea della frattura ideologica e culturale più che mai esistente all’interno di un Paese dove 40 milioni vivono sotto la soglia di povertà e che continua ad essere convintamente isolazionista (gli americani privi di passaporto sono più del 60%), tra una frangia aperta e progressista e una conservatrice e anti-liberal. Una frattura che non passa però necessariamente, come molti osservatori ancora si ostinano a credere, per la sempre fuorviante divisione repubblicani-democratici, da noi troppo spesso equiparati a destra-sinistra. Se così fosse, la stessa Roe v. Wade, votata a maggioranza di sette giudici a due con tre giudici di nomina repubblicana e quattro democratici, non sarebbe mai passata. Se così fosse, quella sentenza sarebbe già stata abolita nel 1992, in occasione della causa Planned Parenthood v. Casey, quando venne sostanzialmente confermato invece l’impianto delle decisioni precedenti. Allora, nel 1992, la Corte era ancora più sbilanciata di quella attuale: di nove giudici, ben otto erano stati nominati da presidenti repubblicani. Se i giudici avessero votato secondo le loro personali inclinazioni politiche, tutti e nove si sarebbero detti contrari all’aborto. In quell’occasione, la motivazione fu proprio lo “stare decisis” cara a Brandeis: la Corte deliberò che poiché i fattori che avevano portato alla sentenza Roe non erano cambiati, non sarebbe stato possibile giustificare un riesame della norma, perché avrebbe provocato una gravissima perdita di credibilità.
Ora tutto questo è stato spazzato via dalla sentenza della settimana scorsa, che oltre ad aver eliminato la Roe ha eliminato anche la Casey, dando l’impressione di essere stata dettata più che da una valutazione giuridica imparziale da argomenti di tipo politico (anche qui facendo pensare alla nostra Consulta sull’eutanasia) nel clima socialmente e culturalmente molto degradato di questo impegnativo scorcio di millennio. Una sentenza che sta scombussolando i sentimenti americani ma che, al contempo, mette a nudo la debolezza di un fronte “democratico” dimostratosi incapace in quasi mezzo secolo di fare approvare una legge che regolamentasse l’aborto a livello federale a consolidare un diritto giurisprudenziale.
Il senatore Bernie Sanders ha dichiarato che «il Congresso deve approvare una legislazione che codifichi Roe v. Wade come legge federale». Impossibile, con questi chiari di luna. I democratici non hanno i numeri per far passare una misura dai risvolti costituzionali che richiede 60 voti in Senato. Un’altra soluzione potrebbe essere il cosiddetto “Court packing” già sventolato contro la Corte all’epoca di Franklin D. Roosevelt, ovvero l’espansione della corte aggiungendo altri giudici per riequilibrare politicamente le cose. La questione spetterebbe però ancora una volta al Congresso. E al Senato i democratici non hanno i numeri. Non resta dunque che aspettare le elezioni di mid term del prossimo novembre. Sarà un banco di prova importante per capire alcune cose: lo stato di salute di una politica in chiara crisi e in particolare di partito democratico colpito ora nel vivo da una sentenza come quella sull’aborto, e di conseguenza lo stato d’animo con cui il presidente Biden potrà guardare alle prossime presidenziali…