Parafrasando il politologo Brent Steele, le nazioni reagiscono in maniera astrategica quando provano vergogna, ad esempio perché un’azione va contro i valori che ne fondano e informano l’identità. Quando un’azione tradisce le proprie aspettative su ciò che è considerato onorevole, una forza interiore inizia a contrastare il pensiero razionale.
La vergogna può essere uno dei sentimenti più pericolosi nell’arena internazionale. Un’arena anarchica non è il posto per la vergogna, per l’introversione, primordialmente lo percepiamo. Ogni sentimento che non conduce all’azione e non preserva la certezza del sé può diventare una minaccia esiziale in uno spazio che contempla puri spiriti di volontà, ben poco addomesticati alla visione formalistica che noi occidentali, avvezzi al diritto e alle regole, apponiamo alla politica internazionale. Ebbene, questo sentimento è entrato ancora una volta in azione il 24 febbraio 2022.
La reazione identitaria ad un evento storico è un cocktail complesso di contingenze, ma ciò a cui abbiamo assistito ormai quasi due inverni fa conteneva gli ingredienti giusti.
L’Occidente ha accettato un paradigma filosofico estremamente esigente come il liberalismo, nemico giurato di tutte le dinamiche di potere che da sempre hanno governato l’attività statale, specialmente in campo internazionale. Ciò attrae sin troppo facili – eppur ineccepibili – critiche d’ipocrisia, nell’inevitabile momento in cui l’attore politico non può mostrarsi all’altezza dell’ideale di cui si fa forte. Ma ha anche un ulteriore effetto, un irrisolvibile dilemma: il perseguimento dell’autoconservazione vive in contrasto perenne con la preservazione morale del sé. Parecchie generazioni, di classe sociale più o meno alta, hanno legato la propria identità a doppio filo con questo complesso filosofico, ma è un sentimento che cognitivamente ci orienta tutti, un tratto di civiltà.
E poi l’altro ingrediente: un’invasione, al centro del sistema internazionale, non era più cosa di questo mondo. Ben abituati ad una deterrenza tentacolare in grado di debellare la guerra dalle zone d’interesse, nel significato letterale in cui avevamo il potere di decidere fino a dove permettere al disordine di espandersi.
Così, da che si parlava di torbida contesa tra Stati riottosi a sistemarsi nell’Europa pacificata dei compromessi e del post-storicismo, l’Ucraina geografica è diventata il santuario violato in cui è scoppiato lo scontro tra il simbolo mondiale del potere illegittimo, e la difesa dell’ordine civile. Altre spezie aggiungevano forza alla reazione occidentale, perché l’Ucraina politica ha mostrato capacità e volontà di difendersi contro l’apparentemente inarrestabile macchina da guerra dell’ex-superpotenza sovietica.
Andava aiutata, una questione di civiltà che obliava ogni ragionamento strategico sulla natura del conflitto. I discorsi in università, la comunità culturale, rivendicavano orgogliosamente il trascuramento di ogni ragionamento geopolitico in favore della reazione emozionale. Una luna di miele che è durata mesi, grazie anche ad una mediatizzazione senza precedenti del teatro di guerra.
L’emozione però va nutrita: speranze di vittoria con progressi concreti, e i proclami di giustizia con l’effettiva realizzazione del suo principio. È invece arrivata la frustrante realtà di una convenzionalissima guerra di trincea. Frustranti successioni di mesi in stallo, il calo della speranza di vedere i buoni rovesciare magicamente le sorti del conflitto con la forza della determinazione. È qui che tornano i ragionamenti geopolitici, che alle nostre latitudini significa soprattutto geoeconomici. Volgarmente, chi non vive per una realizzazione identitaria immateriale si fa i conti in tasca, e la politica segue per principio di concorrenza.
Tanto più che il suddetto ragionamento si è rivelato vero anche all’opposto. Da tempo si è diradata la nebbia attorno alle paure di un Putin novello Napoleone, che, di vittoria in vittoria, avanza verso il cuore della NATO facendosi beffe della cedevolezza occidentale. E oggi è chiaro che, se l’Occidente sarà intelligente a chiudere questa guerra su un bilancio di pareggio, la Russia, bloccata da mesi ai confini del continente, dovrà attendere parecchio prima di poter anche solo tentare un’azione determinante in Europa Orientale, e certamente non si sognerà mai di affrontare un Occidente salutarmente allertato.
Certo, ammesso e non concesso che, nel tempo che passerà, si impari a gestire la convivenza invece di giocare con l’esasperazione. Fino a ieri eravamo sicuri che la competizione est-ovest seguisse i binari del raziocinio; la path dependence che sarà in grado di produrre il presente e, malauguratamente, il futuro a medio termine, semina odio paralizzante per il ragionamento strategico.
Tornando alla Guerra e a noi, quando la bilancia strategica ci dice che più di ogni altro momento è ora che lo sforzo finale può condurre alla soluzione del conflitto – uno stallo consolidato – viene a mancare la volontà. La chiave di volta per completare l’arco, che rimane precario, costruito sull’onda di un’emozione che non ha mai trovato l’equilibrio, ma è rifluita nel disinteresse verso un totem identitario non più in grado di produrci appagamento, e persino nell’irritazione, verso un vincolo di sostegno ad una classe politica che ci pare sempre più autoreferenziale.
Infatti, tornando i ragionamenti geopolitici, torna la dimensione del conflitto in quanto scontro di potenza tra attori interessati. La difesa della madrepatria da parte di un popolo diventa un arzigogolato e repellente intreccio di volontà politiche: gli Stati Uniti da un lato, che spingono l’indebolimento globale della Russia, i leader ucraini dall’altro, che si accaniscono con gran sversamento di sangue per “miseri” vantaggi locali, nascondendo in realtà necessità di gimmick.
Ormai saturi, in fondo pensiamo che l’Ucraina sia sopravvissuta; l’onore (nostro) è preservato, che la smettano.