Mentre si appresta a dilagare a Oriente, in Battriana, nel nord dell’Afghanistan, alle pendici dell’Hindu Kush, l’esercito di Alessandro Magno incontra un gruppo di nomadi. Nelle Storie di Alessandro Magno, Curzio Rufo racconta che il capo dei nomadi, carico di frugale nobiltà, ha rivolto queste parole al conquistatore del mondo:
“Se gli dèi avessero voluto che la tua corporatura fosse pari all’avidità del tuo animo, il mondo non basterebbe a contenerti, con una mano toccheresti l’Oriente, con l’altra l’Occidente, e, ottenuto questo, vorresti sapere dove si nasconda lo splendore di una divinità tanto potente. Anche così, tu desideri ciò che non puoi abbracciare… Eppure, niente è così forte che non possa essere messo in pericolo anche dal debole. È concesso a chi vive in foreste sconfinate, ignorare chi sei e da dove vieni? Non siamo capaci di servire nessuno e non desideriamo comandare”.
La guida dei nomadi incarna il destino di un popolo inafferrabile. Le ultime parole rivolte al grande Alessandro sembrano una profezia:
“Quelli che hai sconfitto, evita di crederli tuoi amici: non c’è amicizia tra padrone e schiavo; anche in pace si mantengono le leggi della guerra”.
Alessandro Magno lasciò in eredità un impero, afferrato da Seleuco, macedone, diadoco del re. Dell’Impero seleucide, con capitale Babilonia, facevano parte la Mesopotamia e la Siria, l’Asia Minore, l’attuale Afghanistan. Durò una manciata di secoli, effimeri: l’insegna imperiale raffigurava il sole, raggiante. I padroni passano, il popolo medita e vive, nel sottosuolo, senza fretta. Sa che il sole si interra.
L’Afghanistan affascina perché indomabile. Diamante nero incuneato a Oriente, terra di selvaggia bellezza. Quanto accade in questi giorni è l’esito di una disastrosa campagna militare, l’ennesima, che nulla ha fatto se non spargere morte. Del contingente Nato in Afghanistan, a guida statunitense, una buona parte era costituita da soldati italiani: la guerra è costata all’Italia soldi, soprattutto vittime. 53 soldati sono morti in una guerra ventennale, inutile. La vittoria talebana – prevista – dimostra la cecità nell’intendere la ‘guerra santa’: i cosiddetti ‘valori democratici’ sono feriali, infine transitori; Dio – in qualunque sanguinario modo lo si definisca – è infinito. Da una parte si lavora e si lotta nel transitorio, tra i bastioni di una gloria fallace, dall’altra ci si orienta all’eterno. Che l’Afghanistan sia stato abbandonato entro un vasto programma di patti con Cina e Russia è affare da affaristi, da speculatori da Risiko. Dopo l’annuncio del Pres Biden di mollare l’Afghanistan ai talebani, Ryan Crocker, ambasciatore americano in quel Paese, già alto diplomatico in Iraq, Pakistan, Kuwait, Libano, ha scritto:
“‘Voi ve ne andrete, i talebani resteranno’: così mi hanno detto alti funzionari pakistani quando ero ambasciatore, poco dopo il 2000. I pakistani sono completamente giustificati nel loro sostegno ai talebani. Le forze statunitensi erano in Afghanistan per garantire che quel suolo non sarebbe più stato utilizzato come base per ordire attacchi contro gli Stati Uniti. Non abbiamo terminato una guerra; lasciamo uno spazio di guerra ai nostri avversari. Chi? I talebani, al-Qaeda, quelli che hanno scatenato l’Undici Settembre. Più intelligenti, tenaci e impegnati di quelli di una generazione fa – quelli più stupidi e meno attrezzati sono stati uccisi. Può darsi che non tentino più di attaccare gli Stati Uniti. Ma l’annuncio di Biden concede a loro l’iniziativa. È un brutto momento”.
L’Italia ha una lunga tradizione con l’Afghanistan, dimenticata. I nostri grandi esploratori sono passati di lì: Marco Polo, Giuseppe Tucci – che tramite l’Ismeo organizza l’Italian Archaeological Mission in Afghanistan –, Fosco Maraini. Riccardo Varvelli, nell’estate del 1965, è parte di una spedizione, nell’Hindu-Kush, che porta l’Italia sulla punta Band-i-Koh (6843 metri), mai vinta prima. L’impresa dà come esito collaterale un libro, Afghanistan ultimo silenzio (De Donato Editore, 1966), di catatonica bellezza. Lo si legge, cioè, come si legge Il Grande Gioco di Peter Hopkirk – al netto della prosa english, che rende ogni ombra un romanzo –; gli esiti sono sempre quelli:
“A dispetto delle mire russe ed inglesi intese ad espandere i rispettivi territori… abitano gli afghani, popolo etnicamente multiforme, linguisticamente disomogeneo ma legato da un comune vivissimo senso della libertà… C’è la saggezza di chi ha sempre voluto amministrarsi da sé, la calma di chi si sente forte perché ha dimostrato di esserlo, il retaggio di un lungo isolamento fra nazioni ostili che si manifesta nella mancanza di una industria autonoma, nella carenza di conoscenze scientifiche, nella povertà di movimenti e di patrimonio intellettuale”.
Varvelli parla da un altro tempo, dal Regno dell’Afghanistan, guidato da Sua Maestà Mohammed Zahir Shah. Erano già passati Mongoli e Moghul, gli inglesi, l’Emirato dell’Afghanistan. Terra severa, dove non attecchisce verbo alieno, allucinato dalle armi, dove la promessa, spesso, è sintetizzata nel tradimento. “L’Afghanistan sfugge alla presa dell’Occidente. Sempre. Ci sfinisce con la sua inesauribile usura. È sfuggito agli inglesi, quando ancora non meriggiava l’isola-impero… è sfuggito ai russi la cui violenza era legittimata dagli immancabili destini della via rivoluzionaria. E invece, ancora una volta, quell’armata di stracci li ha costretti a ritirarsi. E infine, sì, anche agli americani… L’invasione, i miliardi di dollari spesi, gli eserciti privati e le nuove tecnologie: polvere”, ha scritto Domenico Quirico nel 2014, mica oggi, introducendo L’ultimo lenzuolo bianco di Farhad Bitani, ottimo libro per capire “L’inferno e il cuore dell’Afghanistan”, edito allora da Guaraldi e ora da Neri Pozza. Era già tutto previsto, dacché l’Afghanistan è la terra dove tutto ritorna, lo specchio dei nostri smarrimenti, la conca dove un dio affila i coltelli.
Piuttosto, tornando all’antico libro afgano di Varvelli, viene da pensare. Nella stessa collana erano pubblicati, in quegli stessi anni, i libri di Maraini sul Karakorum e sul Segreto Tibet, i libri di Folco Quilici sul Congo, quelli di Alfonso Vinci sull’Orinoco… Non c’erano soltanto italiani esploratori, ma lettori avidi di sapere e di avventura, che aprivano la finestra su Atlantide, che andavano in estro guardando una mappa, il mistero celato dietro l’ombra di un nome straniero, una città sconosciuta. Il delirio digitale occlude la curiosità, ci rende ostinati al niente, e l’Afghanistan, di cui dovremmo sapere tutto, almeno per verbi, ci sorprende nei notiziari del tiggì, e speculiamo di potere e di Occidente, ricchi della nostra vacanza permanente, perché non abbiamo il coraggio di vedere l’uomo che sconfina.
Quando Bruce Chatwin scrive il suo Lamento per l’Afghanistan è il 1980, l’Armata Rossa è entrata a Kabul da qualche mese. Chatwin, in verità, commenta La via per l’Oxiana, straordinario libro di viaggio di Robert Byron, “gentleman, studioso ed esteta inglese che morì nel 1941, per il siluramento della sua nave, mentre era diretto verso l’Africa occidentale”. Gli inglesi sembrano sempre turisti alla ricerca del ‘selvaggio’ che hanno svenduto, qualche secolo prima, per un cottage, i fiori in giardino e i favori dell’elettricità, eppure il brano fa un certo effetto:
“Nel 1962 – sei anni prima che gli hippies lo rovinassero (spingendo gli afghani istruiti tra le braccia dei marxisti) – si poteva partire per l’Afghanistan con le stesse aspettative, diciamo, di un Delacroix diretto ad Algeri. Per le strade di Herat si vedevano uomini con vertiginosi turbanti passeggiare mano nella mano, una rosa in bocca e i fucili avvolti in chintz a fiori. Nel Badakhshan si poteva fare un pic-nic su tappeti cinesi e ascoltare il canto del bulbul. A Balkh, la Madre delle Città, chiesi a un fachiro la strada per il santuario di Haji Piardeh. ‘Non lo conosco’, mi rispose. ‘Dev’essere stato distrutto da Genghiz’… Non leggeremo più le memorie di Babur nel suo giardino di Istalif, né vedremo il cieco avanzare tra cespugli di rose facendosi guidare dall’olfatto. Non andremo a sederci nella Pace dell’Islam con i mendicanti di Gazor Gah. Non dormiremo nella tenda dei nomadi, né daremo la scalata al minareto di Jam. E avremo perduto i sapori: il pane rustico, caldo e amaro; il tè verde speziato col cardamomo; l’uva che facevamo raffreddare nella neve; e le noci e le more secche che masticavamo per difenderci dal mal di montagna. Né ritroveremo l’aroma dei campi di fagioli, il dolce, resinoso profumo del legno di deodara, o l’afrore di un leopardo delle nevi a quattromila metri. Mai più. Mai più. Mai più”.
Il tremebondo sognatore Chatwin a un certo punto sfodera l’apocalisse orientale. “Fosse vivo Byron, probabilmente penserebbe anche lui che col tempo (in Afghanistan ci vuole tempo per ogni cosa) gli afghani faranno qualcosa di assolutamente terribile ai loro invasori – magari ridesteranno i giganti addormentati dell’Asia centrale”. Quel tempo è giunto.