Non è questione di nostalgia. Non c’è da rimpiangere i bei tempi andati, quando sul tabellone dello Strega i nomi che componevano le cinquine erano quelli di Flaiano, Pasolini, Gadda, Landolfi, Calvino o Moravia. Perché ad ogni modo il successo, ma più ancora la bellezza di un’opera, non la sancisce certo un concorso letterario, tantomeno quello istituito nel 1947 per promuovere l’omonimo liquore. Flaiano sarebbe diventato ugualmente Flaiano anche senza vincere lo Strega. Così come Moravia, Landolfi, la Morante. Mentre oggi abbiamo un vincitore l’anno che rimarrà un nessuno qualsiasi – nonostante le migliaia di copie vendute, le comparsate in tv, i firma copie alla Mondadori in Piazza Duomo – pur vincendo lo stesso premio. Il problema, allora, non è chi vince, chi perde, chi viene escluso e perché viene escluso, il problema non risiede certo nella cerchia ristretta – i quattrocento giurati, i cosiddetti “amici della Domenica”, nome che fa tanto circolo parrocchiale, ente di beneficienza – che assegna a rotazione la corona d’alloro a un romanzo pubblicato dai soliti potentati editoriali impegnati annualmente in intense attività di lobbing.
Il problema è un altro ancora, è la pretesa di stabilire un premio letterario, è l’idea che si possa creare una scheda di valutazione secondo una serie di parametri intorno a un oggetto culturale ancora così enigmatico, per fortuna!, che non può sottostare a criteri di leggibilità, intrattenimento, coinvolgimento, tenuta dei personaggi, dell’intreccio o del finale, e di cui ancora non si sa bene quale sia l’ingrediente principale che ne decreta il successo – e se poi allo stesso tempo il successo (soprattutto nel breve periodo) sia un criterio abbastanza affidabile per sancirne il valore, la bellezza, il genio. E se ci rattrista il pensiero di una giuria che si arroga il diritto di valutare un’opera, ci sconforta ancora di più sapere che ci sono scrittori che hanno voglia di vincere un premio. Che hanno la smania di ricevere un’onorificenza, che si mettono in fila sul red carpet di questa fiera della vanità, tutti lustrati e pettinati dalla loro mamma casa editrice che gli prepara il pranzo al sacco, pronti per correre al concorso. Di più, forse tra questi c’è anche qualcuno che nell’atto di scrivere, prima ancora di pubblicare, sta pensando allo Strega, sta ritagliando il suo romanzo a misura di premio, probabilmente con la complicità di qualche editor.
Noi vorremmo una nuova classe di scrittori che non sia una classe tanto per cominciare. Vogliamo vedere autori a cui non piace stringere mani né frequentare i salotti giusti, gente che scrive prima per sé e poi per gli altri, che durante le dichiarazioni non assume pose pedagogiche, che vinto un premio non sente il bisogno di pontificare sulla qualunque, che non viene a farci la morale a ogni intervista rilasciata, che non ha una colonnina dedicata al proprio ego su una grande testata, che dà prova di un sano orrore di sé. Vorremmo uomini che, come Flaubert, passino le notti su una virgola, e come Gadda si facciano mille scrupoli prima di pubblicare un libro (tanto che fu Pietro Citati a sfilare le bozze di Quer pasticciaccio brutto de Via Merulana per darlo alle stampe). Scrittori come Thomas Bernhard, che ammettano che «il conferimento di un premio è solamente cacca, cacca che ti arriva in testa. Accettare il conferimento di un premio altro non significa che lasciarsi cagare in testa perché in cambio si è ottenuta una certa somma di denaro. Io ho sempre vissuto le premiazioni come l’umiliazione più grande che si possa immaginare, non certo come qualcosa di esaltante. Perché un premio viene conferito sempre e soltanto da persone incompetenti che hanno una gran voglia di cagare in testa a qualcuno e che in effetti cagano abbondantemente in testa a colui che accetta un premio dalle loro mani». Noi vorremmo vedere scrittori e scrittrici restii, schivi, riservati, poco fotogenici, addirittura imbarazzati nel ricevere un premio, anche offesi quando è il caso – consapevoli, ad ogni modo, che «quando ci danno ragione dobbiamo tremare. Vuol dire che coincidiamo coi pregiudizi del nostro uditorio», come scrive Gómez Dávila. Uomini che, al pari di Carmelo Bene, sentano tutta la «banalità dell’applauso», perché applaudire vuol dire «incoraggiare il niente». E vorremmo ancora vederne di impauriti, come Céline, quando per un attimo temé di vincere il Goncourt; scrittori che abbiano il terrore di aggiudicarsi una medaglia, perché «non basta rifiutare le onorificenze, bisogna anche non meritarle», come suggeriva Longanesi. È il caso di Sartre ad esempio, che rifiutò il Nobel. Troppo facile. Noi preferiamo chi il Nobel per la Letteratura non se l’è meritato: gli impubblicabili, gli imperdonabili, gli infrequentabili della letteratura.
E invece dobbiamo sorbirci i premi, soprattutto in Italia, dove se ne contano a migliaia. Non facciamo che premiarci, per quella smania che abbiamo di inaugurare, invece di manutenere (e il riferimento qui è sempre a Longanesi), convinti che ad ogni premiazione segua un nuovo corso, un nuovo inizio, la riforma di qualcosa. Ma gli indici di vendita crollano, le case editrici chiudono, si accorpano, vengono inghiottite da gruppi più grandi perdendo la loro identità. Come fanno i colossi dell’editoria a non rendersi conto che ogni anno, sì, con lo Strega, forse riescono ad alzare un po’ le tirature, ma che questa kermesse della mediocrità sul lungo termine, in una specie di caduta tendenziale del saggio di profitto, è la causa principale del calo dei lettori? Crea disinteresse, sfianca, abbassa il livello a tal punto che – la lettura non essendo più un’esperienza intima e mostruosa, viscerale e arrischiata, e il libro una finestra spalancata interiormente, un percorso a ritroso che batte in ognuno di noi sentieri invisibili – il pubblico preferirà spostare la propria attenzione altrove. Insomma anche i big non fanno altro che lamentarsi dell’analfabetismo di ritorno, di un’Italia che non legge più, dell’indifferenza generale, e poi pubblicano libri tanto mediocri da farci tifare per la morte, definitiva, dell’editoria, da farci vedere nell’analfabetismo una forma di resistenza, da farci preferire giovani drogati a giovani semicolti, le serie Tv ai romanzi e così via.
Non bastano i premi letterari, le recensioni a comando, gli incensamenti, le marchette, le lisciate di pelo e gli elogi iperbolici sugli inserti culturali, la ricerca affannosa di superlativi da mettere sulle fascette intorno ai libri o le strategie di marketing più azzardate per trasformare dei romanzi mediocri in capolavori. Il pubblico lo sa, e se legge meno è perché l’offerta è scadente. Avremmo bisogno, invece, di una letteratura pericolosa, che dia adito a vertigini, che sondi i nostri abissi invece di pacificarci con i nostri pregiudizi. Non queste sagre dell’ovvio, dove tutto è già sentito, detto e ridetto. Non questa letteratura fatta in serie che ci appaga, ci riconcilia e ci soddisfa, ma una parola che ci spezzi, una frase che non ci lasci intatti. Ci vogliono più stroncature, meno telecamere, più pudore e meno applausi. Ci vogliono grandi scrittori, editori visionari. Sicuramente non servono i premi.